Recanati, teatro Persiani, “Inventato di sana pianta ovvero Gli affari del barone Laborde” di Hermann Broch
L'INCONSISTENZA DELL'ESSERE E DEL VIVERE
Motivo centrale dell'opera letteraria di Hermann Broch è lo sfaldarsi di una vita spirituale che ha smarrito obiettivi e valori. L'autore austriaco, americano di adozione, è noto come romanziere e saggista, pressochè sconosciuto teatralmente. Questa commedia scritta nel 1934 e rappresentata per la prima volta solo negli anni Ottanta, pare scritta oggi: intrighi finanziari, soldi virtuali spostati da una banca all'altra ma di cui si ignora la provenienza, esportazioni in Cina, affari legati al petrolio dell'Iran, riferimenti all'Argentina. Evidentemente la nostra epoca, in cui la realtà è sostituita da spregiudicate operazioni meramente finanziarie che cancellano persone e fatti, ha le sue radici nell'Europa fra le due guerre mondiali, in cui imbroglio e truffa sembrano essere le sole relazioni possibili, non solo economiche e finanziarie, ma anche sentimentali (Agnes: “tutto è bloccato, senza speranza”).
Interprete acuto dell'intima frattura e dell'instabilità della società (tedesca, ma non solo) del Novecento e indagatore della crisi sociale e morale dell'epoca borghese, Broch è stato un testimone acuto ed attento ed ha intrecciato a questi temi anche una componente metafisica, esprimendo la solitudine angosciata di fronte alla morte, l'ansia di infinito, la ricerca del divino, lui ebreo convertitosi al cattolicesimo, ma soprattutto intellettuale consapevole della irrecuperabilità di certi beni perduti e della malattia dei tempi prigionieri dell'oggettività. Insomma il vuoto dell'esistenza. E nella commedia la circolazione del denaro esprime proprio quel vuoto, quel nulla. Colpisce il disincanto, il compiaciuto divertimento con cui l'autore guarda ai personaggi e alle situazioni, senza condanna morale, senza giudizi di alcun tipo, solo descrivendone il cinismo.
In quel luogo ideale che è un hotel si incontrano personaggi privi di carattere, fondamentalmente vuoti, come girano a vuoto gli ingranaggi della macchina economica ed erotica a cui sono invischiati: Stasi, l'avventuriera di alto bordo di Anna Bonaiuto, Agnes, l'inaccessibile ragazza ricca di Pia Lanciotti, Laborde, il lestofante ma limpido truffatore di Massimo Popolizio (“la vita del truffatore è così piena di scrupoli morali”), Walther, il belloccio vacuo e arrivista di Giovanni Crippa, Seidler, il banchiere sconfitto dal vuoto di Massimo De Francovich. Con loro Giacinto Palmarini, Pasquale Di Filippo, Gabriele Ciavarra, Marco Brinzi, Andrea Germani, Paolo Garghentino, Andrea Coppone. Tutti bravissimi e appropriati.
La struttura narrativa è ben congegnata in quadri snelli e agili, con battute che rimangono sospese nel vuoto, nel nulla, bilanciate tra ironia e andamento narrativo. Ronconi prosegue la ricerca iniziata con Schnitzler e proseguita con Ruffolo; asseconda il testo con una regia asciutta, chirurgica, che scava nel meccanismo per analizzarne il codice comportamentale, enucleando un incrocio di vite e di dialoghi, espressione solo del nulla.
La scena razionalista di Marco Rossi, bianca e nera, illuminata in modo splendido dai colori al neon da Gerardo Modica, è sontuosa ed efficace, perfetta. I costumi, eleganti e vagamente anni Trenta, sono di Jacques Reynaud, gli apporti musicali di Paolo Terni.
Quello che rimane, alla fine, è l'inconsistenza di un modo di essere, l'inconsistenza del vivere.
Visto a Recanati, teatro Persiani, il 14 aprile 2007
Francesco Rapaccioni
Visto il
al
Donizetti
di Bergamo
(BG)