Macerata, teatro Lauro Rossi e arena Sferisterio
UN PROGETTO VINCENTE
Lo Sferisterio di Macerata è una delle più mirabili sintesi architettoniche italiane, progettato negli anni Venti dell’Ottocento dal settempedano Ireneo Aleandri come stadio per la palla al bracciale, luogo-non luogo in cui ombre e luci si rincorrono tra le alte colonne doriche. Il nuovo direttore artistico Pier Luigi Pizzi ha anticipato l’inizio degli spettacoli allo Sferisterio alle 21 per godere della magia del passaggio dal giorno alla notte. La novità della 42^ edizione è la trasformazione in Festival che segue una tematica, il viaggio iniziatico. Infatti nei tre giorni iniziali si susseguono spettacoli legati a filo doppio, un’idea vincente: prima Thamos di Mozart al Lauro Rossi e Il flauto magico, sempre Mozart, allo Sferisterio, poi Magnificat di Alda Merini al Lauro Rossi e Aida di Verdi allo Sferisterio, infine due Turandot, quella di Busoni in forma di concerto al Lauro Rossi e quella di Puccini in forma scenica allo Sferisterio. A tutto ciò si aggiunge, durante le repliche, il recital del baritono Alfonso Antoniozzi, Invitation au voyage. Gli spettacoli al Lauro Rossi sono alle 18, quelli allo Sferisterio alle 21.
Thamos è opera incompiuta di un giovane Mozart che anticipa alcuni temi poi sviluppati nel Flauto Magico, invece ultima opera del compositore. Eliminato il pedante libretto (lasciata un’aria al basso Pavel Kudinov), le musiche sono state raccordate dal racconto orale di Alberto Terrani, impetuoso e coinvolgente, salvo i (per fortuna rari) momenti in cui la voce si sovrappone alla musica. Il palcoscenico del teatro completamente foderato di nero con il quadro di fondo scena rosso brillante, come l’amore che lega i protagonisti della vicenda, situata ai tempi dell’antico Egitto. Orchestra Regionale delle Marche diretta da Guillaume Tourniaire e Coro Lirico Marchigiano preparato da Matteo Salvemini.
Poco dopo, allo Sferisterio, di nuovo Tourniaire sul podio davanti alla stessa orchestra per Flauto Magico, un capolavoro pieno di interrogativi, di considerazioni politiche e sociali, intriso di malinconia e di delusione per la vita, con un vago senso di morte che aleggia su tutto, nonostante tutto. Pizzi ha creato un allestimento privo di provocazioni (penso all’audace e provocatorio Graham Vick a Salisburgo l’anno scorso), senza tuttavia essere banale, di estrema semplicità, con l’eleganza che gli è propria. Il grigio è dominante, un’alta scalea, tre porte contro il muro di mattoni; Pamino è rosso fuoco, il gigantesco serpente che lo minaccia è verde: le immagini di Pizzi sono sempre molto suggestive e di una iconicità che le fissa nella memoria per lungo tempo. Come la Regina della Notte, calva, due ali di piume appuntite verso l’alto, vestito dalla gonna ampia bianconera di piume e stoffa, durante la prima aria un enorme strascico bianco mosso da aiutanti diavoli come un mare in tempesta bianchissimo nel buio della notte. O le tre dame, tre fatine delle favole con la bacchetta magica e una sola ala che dalla schiena punta diritta verso il cielo, insufficiente a volare, sufficiente ala suggestione di volare oltre la realtà. Di buon livello il cast. Blancas Gulin è Pamina dalla voce bellissima, scura e capace di grande estensione, ma soprattutto di trasmettere una intensa sentimentalità; Victoria Joyce è una Regina della Notte con buoni mezzi vocali (peccato il fa sbagliato nel finale della prima aria) e altrettanto buoni mezzi attoriali; Sara Allegretta, Giacinta Nicotra e Victoria Massey le tre affiatate Dame; Andrea Concetti uno straordinario Papageno: la sua bella voce ben si adatta al ruolo, dopo la seduzione di ruoli intellettuali quale don Alfonso (Napoli, aprile e Santa Cecilia, giugno). Bene Tamino di Dmitry Korchack, Papagena di Elena Rossi e Monostatos di Thomas Morris; meno convincente il Sarastro di Panajotis Iconomou, dotato di voce non abbastanza potente: a Parma aveva interpretato in febbraio un sacerdote (nel celeberrimo, bellissimo e assolutamente spoglio Flauto magico firmato da Medcalf) e forse questa promozione a Macerata è un poco azzardata. La parte più debole dello spettacolo è risultata la direzione d’orchestra. Dopo un discreto inizio nella sinfonia iniziale, Tourniaire sembra avere perso un ritmo proprio ed alterna momenti di buona conduzione ad altri di eccessiva lentezza, come l’ingresso di Papageno (quando gli spettatori dovrebbero saltare sulle sedie) o l’inizio del secondo atto. Alla fine un lunghissimo applauso per tutti, un trionfo che è parso anche liberatorio: lo Sferisterio, ai livelli altissimi di una volta. Di nuovo.
Il Magnificat di Alda Merini è il racconto della Vergine Maria, giovane, terrena, piena di paura e di speranza, di dubbi sulla sua condizione e sulla fede, di rabbia per quello che succede, di propensione verso l’altro da sé: “non batterò il mio pugno, il mio pugno che diventa mano che chiede misericordia”. Maria profondamente, perdutamente innamorata. Valentina Cortese ne fornisce una interpretazione enfatica, di altri tempi. Molto suggestive le musiche di accompagnamento, Bach e non solo, suonate da Elena Spotti all’arpa barocca e da Roberto Gini alla viola da gamba.
Mediocre Aida allo Sferisterio, dominata dal bianco e con scelte registiche poco convincenti, Aida che tenta di pugnalare Amneris, Amneris che si struscia contro un ballerino come se ballasse una specie di samba, Radames che non muore (morta Aida, allunga le braccia verso Amneris.. una via l’altra). Nel cast una superba Mariana Pencheva nel ruolo di Amneris, Raffaella Angeletti debuttava nel ruolo del titolo, poco convincente il Radames di Walter Fraccaro. Belle le coreografie di Gheorghe Iancu. Da registrare che la prima è però andata in scena in condizioni ambientali difficilissime, per un forte temporale che si è abbattuto su Macerata fino a poco prima dell’inizio, lasciando un’aria umida e fredda e mandando in tilt l’impianto luci.
Ma il vero evento del Festival da non perdere era il rarissimo abbinamento tra le due Turandot, quella di Busoni (in forma di concerto al Lauro Rossi) e quella di Puccini (in forma scenica allo Sferisterio), entrambe tratte dalla omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi. La Turandot di Busoni è un vero capolavoro, musica che vibra di Novecento con suggestioni mozartiane e della commedia dell’arte, e con rimandi alle sonorità dell’estremo oriente, una partitura impetuosa, viscerale, sfolgorante. Il Maestro Daniele Callegari ne ha dato una lettura convincente, forte e pulita, decisa e vibrante (unico neo il volume a tratti eccessivo del suono orchestrale, che in alcuni momenti soverchiava le voci). Buona la prova dei protagonisti, su tutti la bella Nicola Beller Carbone nel ruolo del titolo.
Per lo Sferisterio Pizzi ha ideato una Turandot molto lineare ed elegante, regia nel solco della tradizione ma con una grossa attenzione alla plasticità visiva di pose e gruppi e la capacità di muovere abilmente il coro e le comparse. La scena è costituita solo da un elegante struttura rosso laccata sormontata da tre sculture femminili in pose languide, costumi sui toni del rosso e del viola, a dare il senso dell’uniformità apparente e invece della grande varietà nelle sfumature e nelle gradazioni di colore. Convenzionali ma belle le due scene con le lanterne bianche. Inaspettato il “funerale” di Liù, al buio in un silenzio totale. Daniele Callegari ha diretto anche questa Turandot con mano sicura, tirando fuori il meglio dall’Orchestra Regionale delle Marche (imprecisioni nella sezione degli ottoni). Il Coro lirico marchigiano, preparato da Matteo Salvemini, fornisce in queste due Turandot la miglior prova della stagione. Nel ruolo principale ha cantato Olha Zhuravel, una vocalità forse non proprio da Turandot per colore, ma buona prestazione, fino in fondo convincente. Debole invece il Calaf di Dario Volontè, costretto ad “urlare” per coprire alcune lacune. Senza smalto ma senza pecche la Liù di Serena Daolio, simpatici e nella parte, come ci si aspetta, i tre ministri Ping Pang e Pong (Bruno Taddia, Mark Milhofer e Thomas Morris); completavano il cast Enrico Cossutta (Altoum), Dejan Vatchkov (Timur) e Michele Bianchini (un mandarino). Buona parte della riuscita dello spettacolo è nelle luci rosse e avvolgenti di Sergio Rossi, capaci di creare un’atmosfera intrigante e piena di mistero.
Sicuramente hanno contribuito in modo fondamentale al successo delle tre prime (anzi, delle sei, considerate quelle al Lauro Rossi) le maestranze tecniche ed di dipendenti degli uffici dell’Associazione Sferisterio, chiamati a uno sforzo indicibile, ma compiuto con successo perché affrontato con professionalità e grandissima passione.
Già annunciata la stagione del prossimo anno, anch’essa da seguire con attenzione, perché percorre un altro tema e riporta il balletto allo Sferisterio, dopo tanti, troppi anni di assenza. Sul filo conduttore del “gioco del potere” andranno in scena al Lauro Rossi Saul di Flavio Testi su libretto di Andrè Gide (in collaborazione con la Fondazione Teatro dell’Opera di Roma), allo Sferisterio le opere Macbeth (in collaborazione con la Fondazione Arena di Verona), Maria Stuarda e Norma e il balletto Riccardo III su musica di Marco Tutino (in collaborazione con CivitanovaDanza).
Una ulteriore ragione per non marcare a Macerata, terra nobile ed elegante, intraprendente e colta, di estrema vivibilità, sintesi ideale di paesaggio naturale ed architettonico.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visti a Macerata, teatro Lauro Rossi e arena Sferisterio, il 28/29/30 luglio 2006