Non è facile portare sulla scena un testo come l'Ippolito di Euripide così lontano nel tempo e restituirlo a un pubblico moderno riuscendo a rispettarne lo spirito e tutte le sue peculiarità.
L'associazione culturale La Fonte di Castalia è riuscita a farlo con la qualità dell'artigiano che mette amore e cura in quello che fa a partire dallo sforzo economico non indifferente, per una associazione che sicuramente non accede ai fondi pubblici eppure non ha voluto rinunciare a nulla a cominciare dall'organico, undici tra attrici e attori in scena dividendosi tra i vari personaggi della tragedia proprio come accadeva, per quel poco che ne sappiamo, allora. Risparmiando magari sui costumi per i quali sono stati usati in maniera intelligente dei materiali poveri e concedendosi invece un impianto luci ricco che sostiene la drammaturgia con eleganza e grande varietà.
Il testo è stato ritradotto con l'impiego un lessico di più immediata comprensione senza banalizzarlo o ridurlo a una prosa troppo disinvolta (con qualche eccezione, un pascolare che diventa parcheggiare, ma potrebbe trattarsi di un lapsus dell'attore) senza dimenticare la lingua originale greca che ogni tanto vine impiegata dal coro in tutta la sua sonorità magica contribuendo all'esecuzione di alcuni momenti coreutici (sviluppati anche tramite l'impiego di alcune parti dei costumi, come i mantelli rossi del coro che vengono impiegati come pannelli di colore, ora depositati sull'impiantito del palco ora sostenuti dagli attori a costituire un muro di colore, ora impiegati come lacci che circondano Fedra). Anche il canto interviene a sviluppare la drammaturgia mentre le musiche, vagamente indianeggianti, contribuiscono senza esagerare a dare alla tragedia un tocco discreto di esotismo. Tutto viene eseguito con grande precisione dai movimenti scenici ai brani del coro recitati ora all'unisono (vero e mai approssimato) ora spezzando la frase e ridistribuendola alle sue varie componenti. Mentre la scena giustamente spoglia vede campeggiare alcune anfore dipinte a evocare la terra in cui si svolge la tragedia, anche esse impiegate nello sviluppo della drammaturgia e mai in pura funzione esornativa.
Insomma una cura e una ricerca che non trascura dettaglio alcuno e presenta una messinscena organica e pienamente riuscita restituendo la modernità del testo disincrostato di tante tradizioni teatrali posticce tanto da far dubitare che alcuni suoi tratti siano stati modificati (la spigliatezza con cui la nutrice si rivolge alla regina, il giudizio immediato del coro appena apprende del desiderio sessuale di Fedra per suo figliastro Ippolito) che invece sono tutti nel testo (anche se la nutrice presenta davvero un linguaggio del corpo un po' troppo da donna libera). Anche la lettura della tragedia proposta dal regista è interessante e approfondita come si può leggere nelle dettagliate note di regia.
La storia è nota. Ippolito, figlio di primo letto di Teseo, dedito ad Artemide dea della caccia fa ingelosire Afrodite, dea dell'amore, che si sente trascurata (il ragazzo è ancora vergine) e per vendicarsi fa innamorare pazzamente di lui la matrigna Fedra, la quale si toglie la vita accusando Ippolito di averla concupita per vendicarsi del disgusto con cui il ragazzo ha reagito al suo desiderio. Teseo credendo alla lettera con cui Fedra accusa Ippolito invoca Poseidone affinché lo uccida e lo bandisce. Appresa la verità da Artemide Teseo accoglie il figlio morente il quale lo perdona prima di spirare.
Molto interessanti le notazioni del regista Bianchi sul testo quando dice che Il male non si identifica con il personaggio di Fedra e con la sua fisicità (...) né [con] il personaggio di Ippolito, con la sua purezza e la sua
castità, (....) Per Euripide, il vero male (...) risiede nel volontario rifiuto di uno dei due poli necessari all’equilibrio della natura umana.
Una osservazione ben sviluppata nell'impianto drammaturgico della tragedia che sottolinea al contempo la mercé degli uomini agli dei e il disequilibrio degli eccessi e che giustifica in questa impostazione una delle modifiche più evidenti al testo (espunto qui e là di alcune digressioni e in riferimento a una cultura non solo mitologica a noi troppo estranea e dunque insignificante) l'assenza del perdono di Ippolito che non dispensa il padre dalle proprie colpe (scelta felice visto che il concetto di colpa, così intriso di cattolicesimo, era completamente estraneo alla cultura greca).
Quello che invece emerge in tutta la sua ovvia evidenza agli occhi di scrive, è da un lato il maschilismo misogino di Ippolito che definisce le donne subdola peste, dall'altra la violenza patriarcale non solo di Teseo nei confronti del figlio (creduto colpevole al primo segno di accusa) ma anche quella di Poseidone, dio maschio che aiuta un altro maschio. Un sistema di (pre)potenza maschile che accomuna anche molti esegeti della tragedia che sono arrivati a vedere in Fedra una colpevole madre incestuosa paragonandola d Edipo, anche se Fedra a letto con Ippolito non ci è stata, e, soprattutto come se il desiderio della regina per il figliastro sia un vero incesto come quello di Edipo con sua madre.
Bianchi propone un allestimento che si distingue per la cortesia verso il pubblico al quale regala uno spettacolo composito ma mai complesso, articolata ma mai dispersivo, al quale si perdona volentieri la non uniformità degli interpreti che accanto ad attori e attrici con più esperienza affianca talenti di caratura minore. Dipenderà forse da questo più che da una dissattenzione della regia una diffromitò del registro interpretattivo che spazia dal naturalismo, impeccaile, di Fedra alla fierezza classica di Teseo all'eccesso recitativo di Afrodite che mal si concilia con la contritezza a tratti impacciata del coro (ma il monologo del servo di Ippolito che ne racconta l'incidente mortale è molto ben eseguito) o alla disinvoltura a tratti troppo moderna della nutrice di cui si è già detto. Così come a Ippolito manca la sfrontatezza della verginità che non è data dalla purezza e dal candore ma dalla superbia con cui rifiuta l'amore carnale, quell'Hýbrisper la quale i contemporanei di Euripide dovevano condannarlo, con motivazioni e valori assai diversi dai nostri.
Ma proprio come l'opera di un artigiano ha valore per l'unicità del pezzo confezionato che non segue la seriale standardizzazione del ben fatto anche questi difetti contribuiscono alla riuscita di uno spettacolo che va apprezzato oltre per i tanti motivi già detti per la sincera, onesta, e sempre più rara umiltà con cui ci si rivolge al pubblico. Un pubblico numeroso, nonostante le avverse condizioni climatiche, che apprezza e applaude calorosamente e a lungo.