Il titolo, “Italianesi”, è una sorta di crasi tra i termini “italiani” ed “albanesi”, infatti il protagonista è un arbereshe, cioè un italo-albanese, unità di una minoranza etnica e linguistica stanziata storicamente nel nostro Paese e, in quanto arbereshe, è devoto della Madonna di Pollino, la cui statua lignea, di stile bizantino, tiene sul braccio sinistro il Bambin Gesù che, a sua volta, sostiene il mondo compromesso dalla follia degli esseri umani.
“Italianesi, già finalista all’edizione 2011 del Premio Riccione per il Teatro, racconta le periodiche e violente persecuzioni dei soldati e dei civili italiani intrappolati in Albania con l’avvento del regime dittatoriale, rievocando così "una tragedia inaudita, rimossa dai libri di storia, consumata fino a qualche giorno fa, a pochi chilometri da casa nostra”.
Come il protagonista della coinvolgente messinscena, con l’accusa di attività sovversiva ai danni del regime, la maggior parte degli “italiani” fu condannata a quarant’anni di dura prigionia, donne e bambini vennero trattenuti e internati in campi di detenzione per la sola colpa di essere mogli e figli di italiani e furono costretti a vivere in alloggi circondati da filo spinato, controllati dalla polizia segreta del regime, sottoposti a interrogatori, appelli quotidiani, lavori forzati e torture.
Il protagonista della pièce – ad esempio - nasce nel 1951 in una condizione di “segregazione” e vive gran parte dell’esistenza nel mito del padre e dell’Italia, Italia che raggiungerà solo nel 1991 a seguito della caduta del regime:
“Papà dove andiamo?”
“Eh” fa lui “ andiamo nel posto più bello del mondo, l’Italia”
“E perché è il posto più bello del mondo?”
“Perché in Italia siamo tutti pittori, musicisti, cantanti”.
“Noi siamo <taliani>”.
I profughi. riconosciuti come tali dallo Stato italiano, vi arrivarono in 365, convinti di essere accolti come eroi, poi, paradossalmente, divennero vittime di un nuovo pogrom, italiani in Albania e albanesi in Italia: “Quand'ero in Albania mi chiamavano fascista, italiano, con enorme disprezzo. Oggi mi chiamano albanese, io che sono stato condannato a morte per essere italiano”.
La Ruina, in un singolare impasto vernacolare che non rinuncia mai alla vocazione affabulatoria,
insegna, con un'eleganza formale capace di piegarsi all'invettiva come alla chiacchiera da bar, a non impigrirsi di fronte alla superficialità delle grammatiche contemporanee ed infatti anche le vicende più dure, accompagnate dalle musiche di Roberto Cherillo, parlano la lingua della poesia e sono tessere di un originale mosaico lirico-lessicale che, recuperando in maniera evidente la narrativa di Carmine Abate, ci ricorda che la libertà è come l’aria , quando non c’è, ti manca.
Prosa
ITALIANESI
"Agli angoli della vita"
Visto il
29-11-2011
al
India
di Roma
(RM)