Una inquietudine collerica si impossessa di Nicolaj Ivanov fin da subito, e si vuol intendere proprio che di possesso si tratta, in questa versione di Ivanov, la prima opera teatrale di Anton Čechov scritta nel 1887 all’età di 27 anni, una produzione Fondazione Teatro Due del Teatro Stabile di Genova che già vanta il Premio le Maschere del Teatro 2016 per la Miglior Regia a Filippo Dini ed il Premio della Critica ANCT 2016 a Orietta Notari, la quale pochi giorni fa ha rilasciato a teatro.it un'intervista che potete leggere su questo link).
L'accento sulla rabbia che pervade lo stato d'animo di Ivanov, infatti, seppure spesso ironica ed apertamente espressiva del suo male di vivere, sembra un disordine che avverte come mentale, ma con accenti di ira rancorosa contro qualcosa di esterno ed oscuro che è giunto a posare una cappa sulla sua vita e sulla sua anima: non ama più, né prova emozioni se non passeggere ed illusorie (ed anzi in qualche modo perfino imposte come l'amore da crocerossina a tutti i costi di Saša, che tra l'altro è un eccellente spunto che consente a Čechov una discreta esposizione del concetto dell'Amare Attivo); insomma è (diventa?) un emarginato nell'interiorità e nell'esteriorità, disinteressandosi nel profondo delle faccende della casa e dell'azienda, così come di una moglie in fin di vita e di ogni passo sociale e personale, come un Uomo senza Qualità cui è stata sottratta la consapevolezza filosofica per rimanere immerso esclusivamente nello spirito “dell'uomo superfluo” del proprio tempo, come si definisce egli stesso.
La regia di Filippo Dini è molto accurata ed attenta a dettagli che fa sembrare del tutto naturali, così come alle posizioni ed alla chiarezza dei personaggi, ed offre una versione davvero diversa da quella che ci si attenderebbe a causa della tradizione con cui Ivanov è stato portato sempre in scena, e si potrebbe dire occidentalizzata, soprattutto nel non replicare quell'atmosfera di piattezza della Russia di campagna di fine '800 (pur cantando spesso Mozart) in cui si esaltano le capriole di Michail Borkin ed i violini suonati nelle feste di cui erano prodighe le case dei proprietari terrieri, e nella recitazione moderna che consente ad alcuni personaggi e situazioni di presentarsi più attuali e riconoscibili, a partire dalla contrapposizione fra le ambigue incertezze di Ivanov e l'apparente chiarezza oltremodo dichiarata e dichiarabile del Dottore L’vov, che infatti prima da Ivanov in un faccia a faccia, poi nel finale viene messa sotto accusa e defraudata delle sue certezze (“ma come suona facile, dottore, l'uomo come una macchina semplice e poco complicata... no, dottore, in ognuno di noi ci sono troppi fili, troppe valvole, troppe ruote perché ci si possa giudicare l'uno con l'altro a partire da una prima impressione o da qualche carattere esteriore: io non capisco voi, voi non capite me, e ciascuno di noi non capisce se stesso... che cosa devo fare?!?”).
Non senza alcuni accenti liguri, la forza dello spettacolo sta anche nella bravura degli attori (soltanto 9) che oltre a dimostrarsi padroni dei caratteri (a volte scelti sopra le righe, ma sempre efficaci) quasi sempre raddoppiano il loro ruolo ed alternano i personaggi interpretati (oltre a Dini, scegliamo come esempi Pavel Lebedev - Antonio Zavatteri ed il Conte Šabel’skij - Nicola Pannelli).
Immiserito nell'accidia, sotto il peso ed il neghittoso fastidio di “tutti quei sacchi sulla schiena” e sopraffatto dal biasimo di molti, il modo con cui la regia disegna il destino di Ivanov nel finale è forse una delle migliori idee dell'operazione, affidata anzitutto al sordo ma penetrante sibilo dell'attimo di follia pronta al gesto estremo, che tutto copre e tutto annulla, e soprattutto ad una transizione in slow motion che data la caduta simultanea delle tante barriere illusorie nei rapporti interpersonali, appare più ancora come una slow e-motion.