Milano, teatro alla Scala, “Jenůfa” di Leoš Janáček
L'AMORE COME DISTRUZIONE, L'AMORE COME REDENZIONE
Leoš Janáček è un compositore a sviluppo tardivo; la sua prima opera significativa, Jenůfa, va in scena quando egli ha cinquant'anni e segna l'inizio della fase più matura ed originale della sua produzione, non più di ispirazione romantica sui modelli di Smetana, Dvořák e Wagner. In Jenůfa il compositore individua alcune matrici melodiche e ritmiche della musica nelle inflessioni e negli andamenti del linguaggio, cioè utilizza come elemento musicale il parlato popolare della lingua ceca nelle sue intrinseche componenti foniche ed espressive, tanto che Milan Kundera scrive che “studiando la relazione tra intonazione ed emozione, Janáček consegue un'acutezza psicologica unica”.
Il linguaggio operistico tende a scavalcare la finzione per rendere nella sua crudezza la miseria esistenziale e la brutalità dei rapporti sociali in uno sperduto villaggio della campagna morava. Janáček impronta la storia su un'appassionata problematica morale: dietro il realismo si intravedono i grandi temi spirituali ricorrenti nel suo teatro successivo (la colpa, l'espiazione, l'amore come distruzione, l'amore come redenzione).
La storia violenta ed amara, è di impressionante attualità e di forte coinvolgimento emotivo. Il titolo originale è “Její pastorkyňa” (in dialetto moravo “La sua figliastra”) e pone al centro il personaggio della sagrestana e matrigna, mentre il titolo “Jenůfa” concentra l'attenzione sulla ragazza e figliastra, affermatosi con la traduzione tedesca di Max Brod (lo scrittore amico di Kafka), approvata dallo stesso autore.
Il libretto di Janáček, tratto dal dramma omonimo di Gabriela Preissová, narra la storia di Jenůfa, una ragazza di campagna contesa fra due fratellastri, suoi cugini, Števa ricco, ubriacone e prepotente, proprietario di un mulino, e Laca povero, timido e sensibile. Rimasta incinta del primo, per salvare l'onore la giovane viene segregata in casa dalla matrigna, sagrestana della chiesa locale. Alla nascita del bambino Števa si rifiuta di sposare Jenůfa, sfregiata alla guancia in un momento di rabbia da Laca, che pure la ama. La sagrestana, disperata, somministra alla figliastra un sonnifero ed annega il bambino in un ruscello gelato, mentre alla ragazza dice che ha dormito per due giorni e che nel frattempo il bambino è morto. Così Jenůfa si avvicina a Laca ed accetta di sposarlo, ma durante le nozze viene trovato sotto il ghiaccio il cadavere del neonato: Jenůfa è sospettata, la però matrigna si proclama colpevole. La ragazza comprende le ragioni della donna e la perdona, poi tenta di persuadere Laca ad abbandonarla alla sua sorte, ma Laca rifiuta e, insieme a lui, Jenůfa può ricominciare a vivere. L'amore come distruzione, l'amore come redenzione.
L'opera va in scena a Brno per la prima volta nel 1904, lo stesso anno di Madama Butterfly e di Salome (che l'anno preceduta alla Scala in questo inizio di 2007, segno di intelligenza ed originalità delle scelte artistiche). Il linguaggio musicale di Janáček è nuovo ed aggressivo e se l'anno scorso Kat'a Kabanova aveva conquistato senza riserve pubblico e critica (grazie all'allestimento di Robert Carsen e alla direzione di John Eliot Gardiner), Jenůfa ha ottenuto lo stesso esito trionfale (grazie all'allestimento di Stéphane Braunschweig e alla direzione di Lothar Koenigs).
Il regista coglie il senso e la profondità dell'opera, riconosce il legame con il verismo ma al tempo stesso ne evidenzia l'atemporalità ed il simbolismo; dimostra come sia possibile creare un risultato eccellente lavorando in modo perfetto sulla gestualità dei protagonisti (per evidenziare il loro dramma interiore) e sui movimenti degli attori e delle masse, senza elementi scenici: nel primo atto solo una pianta di rosmarino in un vasetto, simbolo dell'amore di Jenůfa; nel secondo un lettuccio, simbolo dell'amore materno, lividamente illuminato dall'alto a dare il senso dell'incombente tragedia; nel terzo le panche della chiesa e una grande croce rossa a richiamare la giustizia divina. Solo per fare un esempio, il primo ingresso della sagrestana: i protagonisti sono immobili ai lati della scena, le reclute ballano con le ragazze del villaggio, poi cadono a terra e dal fondo s'avanza, nera e cupissima, Kostelnička.
Eppoi come dimenticare una geniale invenzione scenica di grandissimo effetto, quelle pale rosso sangue che, nel preludio e alla fine del secondo atto, da una fessura del palcoscenico salgono e ruotano, stagliandosi sul pavimento bianco, accompagnate dall'ossessivo suono dello xilofono. Il pavimento è bianco per richiamare la farina (siamo in un mulino), farina che imbratta anche i vestiti scuri dei protagonisti (a contrasto con il bianco degli abiti dei ricchi e con rosso delle giubbe delle reclute); i costumi perfetti sono di Thibault Vancraenenbroeck. La scena, sempre di Brauschweig (garantisce una perfetta proiezione del canto, intelligente e pratico è evidentemente Braunschweig), è severa e cupa, soffocante come la mentalità dei protagonisti, ed è fatta di assi verticali di legno di un colore tra marrone scuro e grigio, usurate e stinte, come ammuffite, che diventano quinte nel primo atto, un oppressivo spazio angolare chiuso nel secondo (salvo aprirsi durante una nevicata per l'infanticidio) e interno di chiesa nel terzo. Azzeccate le luci di Marion Hewlett, ora di taglio ora dall'alto, ora calde ora livide, luci che in pochi secondi riescono a cambiare radicalmente l'atmosfera della scena, disegnando in modo efficace la tumultuosa interiorità dei personaggi.
Il direttore ha condotto l'orchestra della Scala con decisione, attento ad ogni sfumatura, sottolineata con maestria, amalgamando i diversi ritmi ed esaltando la trasparenza e la pastosità dello spartito. La difficile architettura musicale, di enorme impatto psicologico, costruita a frammenti, con ritmi ripetuti, ipnotici ed incalzanti è fluita naturalmente dal gesto elegante e preciso di Koenigs, assecondato da un'orchestra in ottimo stato. Da brivido il ricorrente xilofono nel primo atto, segno del batticuore di Jenůfa, ma anche rimando a un mondo rinserrato e sottomesso alle convenzioni, o forse al destino avverso di Jenůfa, prigioniera dei conflitti familiari e di se stessa.
Il cast segue il sottile gioco di doppi, di identificazioni psicologiche e di rimandi voluto dall'autore (due soprani quasi omogenei per colore per Jenůfa e la sagrestana, due tenori di eguale colore per Laca e Števa). Ottimi gli interpreti, su tutti la mitica Anja Silja, il cui strepitoso carisma riesce a piegare alcune sbavature in sfumature dell'anima tormentata di Kostelnička, vera protagonista: emozionante nel secondo atto, quando è tormentata dalla salvezza dell'anima e dalla necessità di sbarazzarsi del neonato, secondo lei unico ostacolo e motivo di vergogna per Jenůfa per tutta la vita. Il suo canto si distende, permeando ogni meandro dell'anima della sagrestana e offrendo una gamma amplissima di sentimenti.
Mette Ejsing è una convincente vecchia Buryja, Miro Dvorsky un accorato e appassionato Laca, Ian Storey un cialtrone ed egoista Števa, Emily Magee una dolce, buona, malinconica e disperata Jenůfa, Ye Won Joo un limpido Jano, Annely Peebo una bellissima Karolka; con loro Gabro Bretz (il capomastro), Gleb Nikolsky (il sindaco), Marion Ammann (la moglie del sindaco), Alisa Zinovjeva (una pastora), Sae Kyung Rim (Barena) e Francesca Garbi (una comare). Ottimo anche il coro preparato da Bruno Casoni, alla ardua prova della lingua ceca.
Uno spettacolo difficile da dimenticare (alla Scala si registra solo un'altra edizione, nel 1974), come quelle pale rosso sangue di mulino, come l'amore, l'amore che è distruzione, l'amore che è redenzione. Uno spettacolo che il pubblico ha applaudito a lungo, meritatamente.
Visto a Milano, teatro alla Scala, l'11 maggio 2007
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)