I balletti di Béjart sono sempre un'esperienza d'arte totale e totalizzante, una sorta di crocevia intellettuale tra Diaghilev e Wagner. In Kabuki il celebre coreografo riesce a fondere la tradizione giapponese dei samurai con la frenesia della vita dell'uomo moderno.
Il sodalizio che lega il Teatro alla Scala di Milano e il Tokyo Ballet iniziò nel 1986 proprio con Kabuki. Il balletto venne commissionato a Maurice Béjart da Tadatsugu Sasaki, direttore della compagnia giapponese dalla sua fondazione fino alla sua recente scomparsa avvenuta nel 2016.
Il coreografo marsigliese non accolse subito l'invito, dato che non amava creare balletti per altri corpi di ballo che non fossero il suo. Non passarono però che un paio d'anni e Béjart non solo creò Kabuki, ma elesse il corpo di ballo nipponico a privilegiato depositario del suo repertorio.
I samurai e l’uomo moderno
Béjart coglie gli aspetti simbolici del teatro kabuki. Il balletto è diviso in una decina di scene che si susseguono una dopo l'altra con una tenda a strisce verticali che scandisce lo spazio-tempo della rappresentazione. Fatta eccezione per i quadri iniziale e finale, tutti gli altri sono caratterizzati da movimenti lenti e controllati. Da grande conoscitore del kabuki, Béjart compone delle parti femminili molto liriche. Il tipico modo di camminare suriashi con passi che sembrano scorrere sull'acqua vengono riprodotti in maniera superba.
I balletti di Béjart sono sempre un'esperienza d'arte totale e totalizzante, una sorta di crocevia intellettuale tra Diaghilev e Wagner. In Kabuki il celebre coreografo francese naturalizzato svizzero, riesce a fondere in perfetta sintonia la tradizione giapponese dei samurai con la frenesia della vita dell'uomo moderno.
La storia si ispira ad un fatto realmente accaduto e racconta le gesta eroiche di 47 samurai che vendicarono la morte del loro signore costretto al rituale seppuku, meglio conosciuto come harakiri, e a loro volta, terminata la loro missione, compiono un suicidio collettivo.
La coralità di Béjart
La narrazione di Béjart inizia in una discoteca, dove un ragazzo compie il medesimo tragico gesto e si trasforma in una sorta di aedo tra passato e presente che ci accompagna durante le diverse scene.
Tra le più belle sicuramente c'è quella in cui le donne fanno degli splendidi giochi di braccia con i kimoni, mentre sullo sfondo campeggia il tradizionale calligrafismo in bianco e nero. La scena finale dei 47 samurai tutti insieme che danzano all'unisono sul palco è stata un esempio di coralità nel tipico stile bejartiano che ha incantato il pubblico per la precisione, la tecnica e la forza della danza.
I costumi di tutti i danzatori sono stati curati fin nei dettagli, con accostamenti coloristici azzardati ma di grande impatto visivo: verde, viola, rosa, blu e oro mescolati insieme in una tavolozza di colori dalle tinte sgargianti a contrastare il bianco della purezza dei samurai ed il rosso del sangue. Tutti straordinari gli interpreti, in particolare Dan Tsukamoto nel ruolo di Yuranosuke.
Molto particolare la musica di Toshiro Mayuzumi appositamente composta per questo balletto; i brani rievocano le tipiche note gidayu e geza. Solo per l'epilogo Béjart decise di sostituire la musica originale con una dai caratteri più forti e più marcati, ma sempre dello medesimo compositore. E sicuramente il coreografo sortisce un grandioso effetto finale quando alle prime luci dell'alba i 47 samurai muoiono tutti sotto i raggi del sole nascente e il riverbero della candida neve. Béjart ci ha regalato un grandioso spaccato di cultura giapponese.