Milano, teatro alla Scala, “Kát’a Kabanová” di Leoš Jánaček
L’INESPRIMIBILE SOLITUDINE DELL’ANIMA
Kát’a Kabanová è una Madame Bovary russa, una donna sensibile che non sa uniformarsi alla realtà né ribellarsi, finendo tragicamente in mezzo al moralismo gretto ed ipocrita dell’ambiente mercantile del Volga, una donna romantica che non riesce a sopportare l’oppressione di un ambiente ostile, un ambiente molto simile a quello di Canne al vento di Grazia Deledda. Leoš Jánaček drammatizza il conflitto tra l’animo libero e idealistico della protagonista e le imposizioni-sopraffazioni di una società gretta, che si riflette nello scambio incessante tra il mondo naturale, simboleggiato dall’acqua e dunque dal fiume, e i limiti ibseniani della famiglia Kabanov, simboleggiata dalle strette ed instabili passerelle, famiglia dominata e tiranneggiata dalla spietata Marfa. Un percorso in tappe: partenza del marito e descrizione del cupo ambiente familiare, ritorno del marito, catastrofe.
Il conflitto, che è universale, coinvolge tutti ed involge l’intera opera, è annunciato sin dalla scena iniziale, quando il fantasticare estatico di Kudriáš sulla bellezza del fiume viene interrotto dal meschino tiranno Dikoj (il cui nome significa “bestia selvaggia”) che fa il prepotente con il nipote Boris, il quale si è recato là per vedere Kát’a uscire dalla chiesa. L’idea di una bellezza libera, incarnata dal fiume, si ha anche prima, durante l’overture, con i temi che poi ricorreranno nell’intera partitura. Anche l’entrata di Kát’a è accompagnata da una frase musicale che suona libera come il fiume, un sentimento spezzato da Marfa che inizia subito a comportarsi da tiranna. Nel secondo quadro l’azione si sposta all’interno della prigione domestica e non più sulle sponde del fiume. Kát’a parla dei suoi sentimenti quasi in un’estasi religiosa, del suo desiderio di volare come un uccello e le luci si spengono lasciandola in piedi, su una sedia, a guardare l’infinito, immobile.
La tensione cresce tra le mura domestiche e causa la partenza di Tichon per un viaggio di affari a cui segue (l’opera è stata eseguita efficacemente senza intervalli, consentendo il fluire inesorabile della tensione) la scena in cui Varvara dà a Kát’a la chiave del cancello del giardino per permetterle di incontrarsi con Boris. Ma gli oscuri segreti di questo represso interno domestico vengono ulteriormente esplorati nella scena successiva, quando Dikoj si reca a far visita a Marfa e, completamente ubriaco, le chiede di punirlo per i suoi peccati, in una scena con chiari elementi erotici ed etilici.
Poi la scena più famosa, quella del temporale, per Dikoj la voce di Dio che maledice gli uomini, per Kudriáš solo elettricità. Nel mezzo del temporale Kát’a crolla e confessa l’adulterio: Kát’a, a differenza di Dikoj e della suocera, è totalmente onesta, per lei non esistono compromessi, scaltri e pragmatici; per lei esiste solo una realtà asfittica a cui non riesce a ribellarsi, in cui ogni tentativo di ribellione finisce per farla affondare sempre di più, inesorabilmente, senza possibilità di salvezza. E in questa confessione simbolica, nel suo tentativo di redenzione c’è la grande distanza da Emma Bovary: gettandosi nel Volga Kát’a esprime la sua solitudine, una solitudine che tanti conoscono, cercando nella morte l’esito estremo alla propria irrealizzabile volontà di vita.
Robert Carsen riesce a creare uno spettacolo così bello da togliere il fiato, così emozionante da essere difficile trovare le parole per descriverlo, così significativo e poetico da farne una delle cose più belle mai viste. La sua è una regia di altissimo livello, il massimo forse possibile, di un’eleganza suprema, di efficacia totale, uno spettacolo che va dritto al cuore, impedibile. Carsen riesce a materializzare il senso di colpa che era alla base del dramma di Ostrovskij da cui è tratto il libretto e che è il nocciolo dell’opera di Leoš Jánaček, inventando un coro (da tragedia greca) di doppi di Kát’a, vestite di bianco, i capelli sciolti e scuri, che fungono da serve di scena per smontare e rimontare le pedane sul palco completamente invaso dall’acqua. Acqua che è il motivo dominante dell’intero allestimento, importato dalla De Vlaamse Opera di Anversa. Acqua che invade lo spazio, simbolo di libertà e di limite invalicabile al tempo stesso, acqua che genera mille riflessi e che rimanda immagini tremule sulle pareti, sempre diverse da se stesse e da ciò che si rispecchia, immagini embrionali e liquide di una realtà costituita da immagini irreali.
I doppi di Kát’a all’inizio sono sdraiate sopra le assi di legno, poi si lasciano cadere in acqua e galleggiano come cadaveri, come il corpo della protagonista alla fine, non ripescato dal fiume (come invece il libretto vorrebbe). Le assi poi diventano passerelle, pedana quadrata per le scene d’interno (una zattera alla deriva), passaggi per le scene di gruppo, due strette passatoie parallele separate da un’invalicabile distesa d’acqua per l’ultimo incontro tra Kát’a e Boris, un disperato scambio a distanza con ampi gesti, braccia tese con sforzo sovrumano ma non sufficiente a trovare l’altro, che è vicino ma irraggiungibile: una scena di enorme tensione drammatica e di forza assoluta.
Le luci ora di taglio, ora radenti, gelide, livide, spietate, neorealiste, disegnano ombre allungate, riflessi alle pareti, riflessi sull’acqua, strani doppi di figure in cerca di stabilità, se stabilità si può trovare con la luce e in mezzo all’acqua. Scene e costumi (appropriati, grigi e contemporanei) sono di Patrick Kinmonth, luci di Carsen e di Peter van Praet.
Ottimi i protagonisti, tutti: Vladimir Ognovenko (Dikoj), Peter Straka (Boris), Judith Forst (Marfa), Guy De Mey (Tichon), Janice Watson (Kát’a), Stefan Margita (Kudriáš), Elena Zhidkova (Varvara).
Ottima la direzione di John Eliot Gardiner, a capo di una orchestra scaligera in stato di grazia.
Un tale capolavoro non era mai stato rappresentato alla Scala, supremo esempio di realismo musicale, di mescolanza tra musica e testo, capace di descrivere in modo irripetibile un’anima.
Ma l’allestimento di Carsen è in sé un capolavoro. Assoluto. Unico. Emozione allo stato puro. Perché Carsen è riuscito a rappresentare e trasmettere il senso di soffocamento, ma anche il bisogno di sentimenti veri. Senza ipocrisia, senza opportunismo, senza menefreghismo. Il bisogno di sentimenti veri e il sentirsi esclusi perché si ama davvero. Il rimanere soli quando si ama: l’inesprimibile solitudine dell’anima.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Milano, teatro alla Scala, il 22 marzo 2006
Visto il
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)