Il nuovo lavoro del giovane drammaturgo e regista Giovanni Franci è liberamente ispirato a uno dei più efferati delitti che abbiano sconvolto la Capitale nell’ultimo anno: l’omicidio del giovane Luca Varani.
Il titolo dello spettacolo, L’effetto che fa, corrisponde alla risposta che Manuel Foffo e Marco Prato (successivamente morto suicida in carcere) hanno dato agli inquirenti quando è stato loro chiesto perché avessero torturato e ucciso il ventitreenne, in un appartamento romano del Collatino nella notte tra il 3 e il 4 marzo 2016.
Proprio alla vittima, interpretata da Riccardo Pieretti, spetta il compito di presentare al pubblico gli antefatti della vicenda e le brutali circostanze che hanno portato alla sua stessa morte, per mano di Manuel (Valerio di Benedetto), ventinovenne eterosessuale di buona famiglia, studente fuori corso di giurisprudenza) e Marco (Fabio Vasco, il quale sul palcoscenico riesce a rendere in maniera impressionante i tormenti interiori di un trentenne omosessuale, laureato con master all’estero, organizzatore di feste negli ambienti gay della Capitale).
Luca Varani è un “figlio della guerra”, affidato a un orfanotrofio di Sarajevo e successivamente adottato da una famiglia italiana, che lo ha cresciuto a La Storta (periferia nord di Roma); come molti suoi coetanei, ha difficoltà a trovare (e conservare) un lavoro, ma non è un ragazzo “problematico”, forse è solo ingenuo. E questa ingenuità lo spinge a essere l’unico a rispondere a un invito inviato da Marco – in maniera casuale – a un centinaio di contatti Whatsapp.
È l’inizio della fine. Ma prima, i tre protagonisti raccontano al pubblico quell’insensata ricerca di qualcuno a cui fare del male “per vedere l’effetto che fa”, in una sorta di “compendio” circa gli effetti catastrofici prodotti dalla noia esistenziale 2.0: dalla descrizione farmacologica della “droga dello stupro” (GHB), all’utilizzo di un’app per incontri omosessuali, passando per il consumo incontrollato di cocaina (da parte dei due aguzzini).
Neanche attraverso la finzione della recitazione le parole possono raccontare l’orrore che accompagna le modalità dell’omicidio e l’accanimento sul corpo di Luca, che vive la sua dolorosa passione fino all’ultimo respiro, cosciente, ma inerme, in balìa dei suoi carnefici; per questo l’autore utilizza l’espediente di una voce fuori campo (Alessia Innocenti), che descrive i particolari più raccapriccianti dell’omicidio.
Lo sviluppo drammaturgico più interessante è rappresentato dal punto di vista dei due aguzzini dopo l’omicidio: nel suo monologo, Valerio di Benedetto (Manuel), sostiene con viscerale fermezza la necessità e immediata consapevolezza del male negli esseri umani; un’interpretazione “sanguigna”, che colpisce come un pugno nello stomaco.
Fabio Vasco per la sua interpretazione trae ispirazione da Dalida (per la quale Marco Prato aveva una sorta di ossessione) e, sulle note di Pour ne pas vivre seul, svela molto di più su ciò che il carnefice “era e non voleva essere”, di quanto non si sia appreso della cronaca.
Dalla scena dell’omicidio in avanti, l’attore Riccardo Pieretti rimane disteso, completamente nudo, su un lungo tavolo, che nella penombra del palcoscenico diventa un altare su cui immolare una vittima sacrificale. E, mantenendo lo stesso distacco e sangue freddo, si alza, si dirige ancora nudo verso il proscenio e, rivestendosi, si congeda dal pubblico.
Con questa immagine - e dedicando lo spettacolo alla memoria di Luca - l’autore ha voluto lanciare un ultimo, devastante spunto di riflessione, assai distante dalla mera spettacolarizzazione di un raccapricciante fatto di cronaca.