Macerata, teatro Lauro Rossi, “La belle joyeuse” di Gianfranco Fiore
RISORGIMENTO PRIVATO
In estrema sintesi, garzantinianamente, la vicenda di Cristina Trivulzio di Belgioioso può essere riassunta così: nata a Milano nel 1808, patriota e scrittrice, liberale e antiaustriaca, tenne un salotto politico-culturale a Parigi e partecipò alle insurrezioni del 1848-49 a Milano e Roma; tradusse in francese le opere di Vico e morì a Milano nel 1871.
Anna Bonaiuto è bravissima a ripercorre tutta la vicenda della nobildonna, da bambina sino a tarda età, riuscendo a mostrarsi convincente con impercettibili metamorfosi nella voce e nel contegno, incredibilmente senza cambiare abito e trucco ma rendendo così immediatamente evidente l'avanzare degli anni.
I momenti sono separati, come brevi capitoli, in rigorosa successione temporale, raccordati da poche note al pianoforte: una storia del risorgimento e del crollo delle aspettative. Il testo di Gianfranco Fiore è descrittivo e immaginifico al tempo stesso, il linguaggio contemporaneo e Ottocentesco, giusta sintesi per parlare oggi del passato. Sua anche la regia: giusta e misurata sulle corde interpretative della Bonaiuto, interprete intensa, raffinata e sensibile che sente questo personaggio in modo totale, prodigo di emozioni.
L'infanzia di Cristina è all'insegna della solitudine, una ragazzina esile e gracilina che entra nella società milanese e resta folgorata da Emilio di Belgioioso, bello e impavido, abile a duellare come a cavalcare, conversare, danzare. Cristina si mostra frivola e profonda, lo seduce e lo sposa, divenendo l'eroina di un fuilleton. Ma è una moglie cornuta e le frequenti avventure del marito nei postriboli le “regalano” la sifilide e la diagnosi di una vita breve. “Adesso mi resta solo il buio, solo la notte”. Lascia il marito ma non divorzia, come si fa con un fiore che si mette in un vaso ma non lo si butta via per evitare che qualcuno lo raccolga. Cristina riesce a rendere amica la sua sofferenza, ma le servono aria e luce. Viaggia, con un'unica certezza: la sua vita sarà breve, è destinata a vivere da sola e allora sarà libera. “Non sono e non voglio essere un'oca da salotto”: parte per Parigi, inseguita da un ordine d'arresto emesso dall'Austria. Diviene un'esule in fuga febbrile, punto di riferimento dei patrioti emigrati: un'eroina da melodramma, la principessa di Belgioioso, “la belle joyeuse”.
Basta un oggetto in mano e il mondo di Parigi è lì, sul nudo palcoscenico (poi un lenzuolo bianco per la malattia), basta un ombrellino ed è evocata la Provenza, dove ha un breve ma intenso incontro d'amore con un cieco, “mi piaceva l'idea di sedurre solo con le parole”. La scena di Sergio Tramonti ha pochi oggetti d'epoca, funzionali alla narrazione, e un telone sul fondo che viene alzato e abbassato per esigenze sceniche, una tela incrostata che riflette la luce in modo sempre diverso. Il costume di Sandra Cardini perfettamente aderisce al momento e si adatta ad una figura fuori dalle età come lo spettacolo richiede, un abito nero come il “lutto per la morte di un sogno”. Giuste le luci di Pasquale Mari nel far emergere dall'ombra la protagonista, come la narrazione fa coi fatti e i ricordi.
A Parigi si organizza un gruppo che può marciare contro la Savoia: Cristina finanzia l'impresa firmando due lettere di credito, ma l'Austria le sequestra l'immenso patrimonio familiare, costringendola a vivere di piccoli lavori e dell'aiuto dei parenti. Splendido il ricordo della prima frittata in povertà: “se non si hanno soldi, bisogna non spenderli”. Ma la cultura e la diplomazia, talenti innati, la aiutano: da eroina tragica diviene principessa rifugiata. Nel suo salotto si radunano poeti e scrittori, pittori e musicisti: un cenacolo culturale irripetibile. Cristina è una donna impenetrabile, misteriosa, la pelle candida e gli occhi di fuoco. Il marito la cerca: le più folli bugie di lui le appaiono il frutto di un'incomprensibile purezza.
Torna nella natia Lombardia, a Locate, mamma della piccola Maria. Si innamora, ricambiata, di Gaetano Stelzi, diviene scrittrice e traduttrice, fonda e dirige giornali e si pone contro la Chiesa. Va a Napoli, poi a Milano. Dopo la morte di Gaetano torna a Parigi. Poi sette anni di vagabondaggi tra Smirne, Gerusalemme, Damasco, Aleppo. Una nostalgia febbrile la riporta a casa dopo un tentativo di assassinio da parte di un bergamasco, da cui si salva per miracolo. Quella previsione di vita breve non si è avverata. Anziana, in un'Italia riunificata che poco comprende e dietro un viso cambiato (“la bellezza è una stupida illusione”), Cristina si lascia andare ai ricordi, temendo l'oblio più della morte. “Ci sarà un tempo in cui i popoli decideranno il loro destino?”
Le parole raccontano il senso di una vita inimitabile, la decisione di non farsi travolgere dai sentimenti, la freddezza quasi febbrile (ossimoro prefetto per lei), la confessione senza pudori (“in ogni uomo l'inganno, in ogni amore il contagio che mi ha rubato la vita”), il sorriso ironico dell'ultimo istante, il coraggio e la capacità di decidere sempre della propria vita in base alle proprie condizioni: fino in fondo.
Pubblico rapito dallo spettacolo e dall'eccezionale bravura dell'interprete, alla quale è stato tributato un meritato trionfo. Minime limature nel testo e una totale padronanza del personaggio da parte della Bonaiuto hanno reso perfetto lo spettacolo, già visto e recensito a Recanati in occasione dell'anteprima nazionale due anni fa. Da augurarsi che la prossima stagione ci sia una lunga turnè per questo imperdibile spettacolo, prodigo di emozioni e di spunti di riflessione, non solo storici e antropologici.
Visto a Macerata, teatro Lauro Rossi, il 10 aprile 2013
FRANCESCO RAPACCIONI