Nata per il San Carlo Opera Festival 2015, la Bohème in scena in questi giorni è uno spettacolo essenziale e toccante. L’allestimento ideato da Francesco Saponaro è semplice, lineare, a tratti addirittura scarno. A fissare l’atmosfera che avvolge l’azione sono le grandi proiezioni usate come fondali disegnati, capaci di evocare una Parigi fatta di nuvola e di favola, di neve impalpabile, di comignoli sonnacchiosi, di tremuli bagliori notturni. Nessun descrittivismo, nessuna concessione al caratteristico: la soffitta, il caffè, la dogana sono luoghi dai contorni appena accennati, nei quali lo scenografo Lino Fiorito, che firma anche i sobri costumi, introduce pochi elementi ben congegnati e li trasforma e li riconnota all’occorrenza.
Questa cornice lieve e discreta ha il merito di sottolineare e valorizzare soprattutto la dimensione intima della vicenda rappresentata. Tolta la vivace confusione dell’azione collettiva del secondo quadro, Bohème si offre allo spettatore come dialogo tra personaggi-individui che si incontrano e si scontrano, si perdono e si ritrovano. La semplicità del tratto fa emergere dettagli solitamente tracurati, inedite gradazioni di senso, risonanze preziose. Rinunciando all’effetto esteriore, la messinscena acquista una speciale profondità ed esalta i caratteri psicologici, i sentimenti e le passioni dei protagonisti, che risultano perciò più vivi e più veri.
A tale risultato contribuiscono in misura cospicua gli interpreti di alto livello coinvolti nella fortunata produzione. Nei panni di Mimì, Irina Lungu canta con sicurezza e sensibilità ed è in grado di commuovere senza indulgere a sbavature sentimentali; di gran classe il suo controllo degli spessori vocali, amministrati con sapienza e variati con gusto. Solido e perfettamente intonato il Rodolfo di Francesco Demuro, capace di conquistare i consensi del pubblico con la pienezza dell’emissione e con gesti vocali generosi ma mai plateali. Piace molto anche la Musetta di Ellie Dehn: il soprano americano è perfettamente a proprio agio nel bellissimo ruolo, restituito in tutte le sue sfumature attraverso la purezza del canto e l’appropriatezza del gesto. Assai bravo anche Alessandro Luongo, che tratteggia un ritratto vigoroso e sanguigno di Marcello senza mai perdere di vista la bellezza del suono e la raffinatezza del fraseggio. Spigliato, disinvolto e preciso lo Schaunard di Giulio Mastrototaro. Bello il colore della voce di Alessandro Guerzoni, che si fa applaudire nella parte di Colline. Apprezzabile l’apporto di Matteo Ferrara (Benoît e Alcindoro) e di Ennio Capece (Parpignol).
Un merito particolare va riconosciuto al direttore, il giovane maestro viareggino Valerio Galli (classe 1980). La sua lettura della partitura pucciniana è al tempo stesso equilibrata e appassionata, e la cura attenta del particolare convive con la tenuta complessiva. Ottima l’intesa con i cantanti, dei quali Galli asseconda gli indugi e gli slanci senza lasciarsi prendere la mano.
Il pubblico apprezza e applaude sia a scena aperta, sia alla fine dello spettacolo.