Lirica
LA CENERENTOLA

la solitudine in trionfo

la solitudine in trionfo

Tutti, anche i non addetti ai lavori, conoscono il connubio professionale Mozart – Da Ponte, di cui oggi si parla a titolo emblematico come di perfezione nella collaborazione operistica. Ma perchè non si fa altrettanto di Gioachino Rossini e Jacopo Ferretti? Ferretti è davvero un genio, la bellezza e l'intelligenza del suo libretto, unite alla partitura, hanno prodotto quel miracolo che è La Cenerentola, che non finisce mai di stupire, emozionare, commuovere.

Daniele Abbado ambienta lo spettacolo negli anni Settanta del Novecento e lo sfoltisce da ironia, buffoneria, divertimento. Sottolinea invece la vicenda triste della ragazza trattata come una serva, l'abbandono, la tristezza. Illuminante in tal senso il finale, dove Angelina canta da sola, circondata da una folla, ma nessuno le si avvicina, la abbraccia, le tende una mano: è la solitudine a trionfare, non la bontà.
Abbado lascia vuoti significativi, spazi grandi in cui i protagonisti paiono minuscoli, assorbiti dall'ambiente. La gestualità è contenuta per tutti (un po' più marcata per Don Magnifico e le sorellastre). Vuoto e rarefazione si adattato ad alcuni passaggi, come il temporale, qui reso in senso interiore, un accumulo di tensione fra Angelina e Don Magnifico mentre lui fa un pediluvio coi piedi nudi in un bacile di plastica azzurra. Vuoto e sottrazioni funzionano meno in altri passaggi, come la trasformazione di Cenerentola grazie ad Alidoro: via la magia e la favola, via tutti gli elementi, non resta nulla. Se non una solitudine senza antidoti.

Gianni Carluccio fodera la scena di altissimi pannelli di truciolato color paglia dove sono evidenti i contorni di finestre e porte chiuse da sportelli. Pochi gli oggetti di scena: una cucina di formica gialla (che nel finale si raddoppia verso l'alto come se fosse sotto uno specchio), un divano elegante e quattro lampadari per la casa di Don Ramiro, un divano più essenziale per la casa di Don Magnifico, sei scalette (tre calano dall'alto e tre spostate a mano su ruote) che salgono e scendono oppure rimangono sospese nel vuoto.
Gli abiti di Giada Palloni declinano l'epoca dell'allestimento, caricando leggermente alcuni particolari: le maniche a sbuffo di Dandini travestito da principe (col ciuffo come John Travolta in Grease), le gonne rigide delle sorellastre in versione elegante, il sacco in cui dorme Don Magnifico poi esibito come mantello regale impugnando a mo' di scettro un attrezzo da cucina (come non ricordare l'esilarante scena di Dulù alla prova di teatro a casa del maestro Mirabile in “La figlia del podestà” di Andrea Vitali edito da Garzanti?). Le luci di Guido Levi sottolineano il grigiore e i colori spenti e lividi delle scene, aumentando il senso di disagio e solitudine in cui è costretta a vivere la protagonista. Poco rilevanti nell'economia dello spettacolo i movimenti coreografici di Alessandra Sini, concentrati soprattutto nelle movenze di tango alla festa di Don Ramiro.

Michele Mariotti affronta la partitura in modo assai personale. Nell'ouverture pare anticipare quei toni di tristezza, malinconia e solitudine che sono alla base delle scelte registiche, annunciando la “realtà” rossiniana sulla “favola” perraultiana. Il Maestro trova sonorità soffuse nei momenti più elegiaci (splendido “Una volta c'era un re” con tempi allargati), ma, al tempo stesso, sonorità dinamiche nei grandi concertati (splendido il sestetto “Questo è un nodo avviluppato”). I tempi sono scelti mai troppo serrati; i suoni sono più trasparenti nei momenti seri (“Nacqui all'affanno e al pianto” oppure l'emozionante “Un soave non so che”). Per quel che concerne i tagli, non c'è il coro con cui inizia il secondo atto e così non si spiega perchè Don Magnifico dica alle figlie “ridevano di noi sotto-cappotto”.
L'orchestra ha suonato bene, come buona è stata la prova del coro, limitato alla sezione maschile, preparato da Lorenzo Fratini, coro che entra in scena dalle aperture laterali tramite passerelle retrattili e scale.

Notevole la prova di Simone Alberghini e Paolo Bordogna. Alberghini tratteggia un Dandini fascinoso, elegante nel portamento, principesco nel contegno, al punto che lo scambio di ruoli risulta naturalissimo ed inevitabile; Alberghini è sicuro ed espressivo, dotato di voce dalla robusta brunitura timbrica. Paolo Bordogna è un Don Magnifico odioso ma non caricaturale, con voce senza alcun limite e ottime capacità attoriali.
Laura Polverelli è una Angelina (detta Cenerentola) dal fisico minuto e dall'aspetto dimesso: commovente quando all'inizio è accovacciata sulla sedia di formica, sognando ad occhi aperti come la Fiammiferaia di Kaurismaki; elegante e raffinata nel palazzo del principe, torna poi alla sua solitudine, da cui non la sottraggono l'amore di Ramiro ed il perdono ai familiari; vocalmente ha colorato le frasi musicali in modo convincente, affrontando le agilità con precisione e sicurezza e garantendo sempre un'emissione omogenea con solide bruniture nel grave; la cantante dimostra di avere ben compreso la parte anche dal punto di vista attoriale.
Michael Spyres ha cantato un po' “in sicurezza” nelle colorature, senza la sfrontatezza che la parte di Don Ramiro richiederebbe; giusti comunque gli accenti espressivi, il percepire qua e là la sua provenienza americana dà al personaggio un tocco esotico.
Lorenzo Regazzo è un Alidoro dalla voce importante e bella, misurato e distaccato in un ruolo fondamentale per lo svolgersi degli eventi: il filosofo-illuminista, tutore-precettore e mago, che ha sostituito la fatina di Perrault.
Zuzana Markovà e Giuseppina Bridelli sono le sorellastre Clorinda e Tisbe, vanitose ed invidiose come debbono essere, buffe più che antipatiche, giuste dal punto di vista vocale.

Diversi posti vuoti a teatro (da registrare che nella scorsa stagione lo spettacolo è stato a Reggio Emilia); molti applausi sia durante la recita che nel finale.

Visto il
al Comunale - Sala Bibiena di Bologna (BO)