Quando si tratta di riportare in vita il repertorio teatrale sei-settecentesco, le cui particolari peculiarità credo siano ben note ai nostri lettori, svariate e multiformi possono essere le opzioni scenico-registiche. Si può costruire uno spettacolo immaginifico, come nel caso del trittico monteverdiano di Ponnelle, o del vivaldiano “Orlando furioso” di Pizzi. Spettacoli giustamente famosi, prototipo di un innovativo modo d’intendere il melodramma barocco, rispettandone la struttura e lo spirito interiore senza sacrificare in nessun modo il lato visivo: riprendendo cioè l’intento di ‘meravigliare’ lo spettatore, tipico di quell’epoca. Si può decidere al contrario di ridurre al minimo ogni orpello, ogni suggerimento visivo arrivando alle soglie di una esecuzione oratoriale, e lasciando il resto alla fantasia dello spettatore; il che fa pure risparmiare sulle spese d’allestimento. Oppure si può costruire una rappresentazione di lucida e classicistica severità, dal design modernissimo, come fece Daniele Abbado con il mozartiano “Il re pastore” visto qualche anno fa alle Muse di Ancona; soluzione condivisibile quando – come capita spesso in questo repertorio – nel libretto non accade praticamente nulla o quasi, e la partitura si riduce ad una sfilata di recitativi/arie magari musicalmente bellissimi, ma dalla drammaturgia evanescente. Altra soluzione è quella di attualizzare al massimo quanto narrato dalla trama, inserendolo in contesti a noi più o meno contemporanei; operazione che però raramente mi sento di condividere, riuscita in parte a Martin Kusej che nel 2003 per Salisburgo costruì una “Clemenza di Tito” mozartiana di grande effetto scenografico, impiegando orrendi abiti moderni ma lavorando con giudizioso senno teatrale sulla recitazione. (Potete farvene un parere vostro trovandola in DVD TDK, oppure più facilmente in YouTube). In quasi tutti gli altri casi, ahinoi, si incorre in incresciose forzature, come nel caso del “Giulio Cesare” di Händel portato in scena, sempre in quel di Salisburgo, da Moshe Leiser e Patrice Caurier al Festival di Pentecoste 2012, riempiendo la scena di pozzi di petrolio in fiamme, pneumatici e carcasse di camion, tra torvi emiri e trafficanti di petrolio. Spettacolo musicalmente eccellente, senza dubbio, ma scenicamente biasimevole. (Ed anche qui soccorre l’archivio diYouTube, se curiosità vi punge di farvi la vostra opinione).
Ma arriviamo al dunque… Questo allestimento veneziano dell’estremo lavoro di Mozart, la già citata “Clemenza di Tito” composta per l’incoronazione praghese di Leopoldo II d’Asburgo Lorena, è stato approntato in collaborazione con il Teatro Real di Madrid, dove è già andato in scena giusto due anni fa. Dal punto di vista scenico ha però i suoi anni, ed a mio avviso li mostra tutti: nacque infatti nell’ormai lontano 1982 al Théâtre de la Monnaie di Bruxelles, fu ripreso dieci anni dopo a Salisburgo, poi ancora nel 2000 al Covent Garden di Londra ed infine nel 2005 all’Opéra di Parigi. Dunque, in sale tutt’altro che disprezzabili. Il lavoro dei coniugi Ursel e Karl Ernst Herrmann –coadiuvati ora nella regia anche da Joël Lauwers - suscitò molte perplessità e contestazioni nel passato, ma oggi la sua carica eversiva appare decisamente smorzata: forse per questo oggi appare uno spettacolo tutto sommato noiosetto, che scorre senza increspature e senza suscitare grandi emozioni. La scena presentata allo spettatore è un vasto cubo bianco-azzurrino, con grandi aperture in basso ai lati, piccoli lacunari in alto, un foro circolare sul soffitto; di fatto, praticamente vuota ed immateriale. La corona d’alloro sempre appesa in scena ad un filo; l’enorme macigno a forma d’uovo con una specie di nido che ospita una ninfa, trainato con una fune attraverso il palcoscenico; la grande colonna spezzata, cava al suo interno; il nero cubo di pietra che scende dall’alto per schiacciare il traditore Sesto, salvo poi risalire al magnanimo perdono di Tito; i costumi moderni ma dal disegno alquanto bizzarro: sono tutte idee che non colpiscono ormai più di tanto, né destano troppo interesse. E poi, mi pare vi sia pure qualche fastidioso fraintendimento registico da parte di Karl Ernst Herrmann, almeno nel sovraccaricare di significati allegorici la narrazione; ma sopra tutto quando durante il concitato colloquio tra Tito e Sesto - punto cardine dell’intero melodramma, grande pagina di musica e teatro - il primo cerca una qualche motivazione all’inspiegabile tradimento dell’amico, ed il secondo viene costretto a pigolare scuse volteggiando per la scena. Comportandosi in questo spinoso confronto non come un virile soldato (quale dovrebbe essere) ma piuttosto come un isterico mentecatto. Ma per dare a Cesare quel che è di Cesare, bisogna però ammettere che la scena finale del primo atto, nelle iperclassiche prospettive d’archi aperte ai lati, nelle luci delle fiamme e nel gioco dei personaggi, era costruita e risolta visivamente a dovere.
Comunque, c’era la musica…e che musica! Parlamone subito. Per l’ex Granduca di Toscana, illuminato monarca contrario ad ogni forma di sterile autoritarismo, Mozart ripescò il celeberrima dramma che Metastasio aveva scritto per l’incoronazione dell’avo Carlo VI nel 1734; un testo tra i più famosi ed apprezzati del poeta cesareo, già intonato da una lunga falange di suoi colleghi. Però Wofgang voleva creare ora una ‘vera opera’ (proprio così l’annotò nel personale suo catalogo) desiderando di non lavorare su di un testo prestigioso ma ormai un po’ fossilizzato, un po’ demodé. Ne affidò come noto una rielaborazione al versatile Caterino Mazzolà il quale, taglia e cuci qua e là, gli consegnò infine un testo eccellente. Fatta salva infatti tutta l’essenza dei limpidi versi metastasiani, grazie al suo paziente lavoro di cesello, tutti i personaggi acquistavano una nuova dimensione, più umana ed attuale anche se sempre odorosa di aulica Arcadia: base ideale sulla quale il Saliburghese eresse un’architettura musicale geometricamente perfetta
Ottavio Dantone è solito esibirsi con la sua Accademia Bizantina, formazione con la quale ha affrontato un po’ tutto il grande repertorio barocco; però qui si è necessariamente trovato a dover pilotare l’orchestra di casa, cioè una compagine più ampia e della opportuna dimensione. Artista acuto e capace, Dantone: lo si sente subito nel lavoro di gruppo, cioè nella perfetta intesa con i cantanti e nel come abbia tratto dai bravi strumentisti veneziani leggerezza e trasparenza, grande nitore di colori, bel rapporto tra fiati ed archi, scegliendo tempi spediti ed un’articolata ed efficace dinamica. E lo si avverte nel come sa infondere nella sua concertazione una vivida ed estroversa teatralità (bellissimo il concitato e tempestoso Quintetto che chiude il primo atto, con sullo sfondo le guizzanti fiamme che avvolgono il Campidoglio); e nel come imprime ad una partitura celebrativa nello spirito e nelle intenzioni, però ricca di pathos e giammai magniloquente, un andamento bellamente narrativo, ricco di tensioni portate all’acme e poi ben risolte.
Quanto al cast, possiamo dire senz’altro che in questa “Clemenza di Tito” veneziana è stato pensato con grande oculatezza. Comincamo col protagonista: Carlo Alemanno è un Tito persuasivo, saldo nei recitativi - nel dialogo con Sesto, da «Che orror! che tradimento!» in poi le redini le tiene lui – e pronto a fraseggiare con bel gioco di chiaroscuri, consegnando un «Se all’impero, amici dei» di superba nobiltà. Segue poi la deuteragonista: Carmela Remigio è una Vitellia plasmata un po’ sulle volitive eroine di Racine: dunque orgogliosa, vendicativa, ambiziosa. Ma figura sempre concreta e reale. Vive benissimo lo sfaccettato personaggio senza mai eccedere; basti prendere ad esempio cone dipana con grande finezza l’articolata riflessione «Ecco il punto, o Vitellia», concludendola in grandezza con l’infuocato rondò «Non più di fiori vaghe catene», dove qualche leggera defaillance che ci è parso avvertire nei suoni gravi viene riscattata da una lettura appassionante e tecnicamente pirotecnica. Sesto è nelle mani di Monica Bacelli: il mezzosoprano abruzzese è grande esperta del repertorio sei-settecentesco, conosce bene il ruolo e non fallisce il colpo. Intravede e sa ben esprimere il travaglio di un amico/amante alle prese con situazioni più grandi lui, mostrando l’alternarsi di debolezza e di nobiltà d’animo; trova i colori adatti, rende i giusti abbellimenti, nel concitato «Parto, parto», arrivando ad una vetta interpretativa nello splendido rondò «Deh per questo istante solo» dipanato con varietà e precisione. Intensa e brava Raffaella Milanesi nei panni di Annio, piuttosto tribunizio ed altisonante il Publio di Luca Dall’Amico (ma qui potrebbe esserci lo zampino della regia, che a volte dirotta dalla retta via), modesta e pallida vocalmente la Servilia di Julie Methevet, unico punto debole del cast costruito da Dantone.
Calibrati gli interventi del coro della Fenice, diretto da Claudio Marino Moretti.