Il 27 gennaio scorso, dopo cospicui lavori di restauro e di ristrutturazione, il San Carlo di Napoli ha inaugurato la propria stagione lirica con un titolo prezioso: La clemenza di Tito di Mozart. La scelta della raffinata partitura, che appare con una certa frequenza nei cartelloni operistici, sottolinea stavolta uno speciale rapporto con la città meridionale: quest’ultima fu infatti il primo centro musicale italiano ad accogliere una messinscena del lavoro, che, creato a Praga nel 1791, approdò nella capitale partenopea il 13 maggio 1809 (in una forma, a dire il vero, variamente contaminata e infarcita di numeri spuri).
La rappresentazione sancarliana, ancorché gradevole nell’insieme, è sembrata un po’ sfocata, non ben calibrata sulle misure estetiche peculiari del testo mozartiano e perciò incapace di metterne in luce i significati. La sensazione di un bersaglio spesso sfiorato ma non perfettamente centrato si è avuta anzitutto con gli interpreti vocali. Il Tito di Gregory Kunde era troppo proiettato verso uno stile di canto ottocentesco, e non trovava quella cifra di maestà che invece è tratto essenziale del personaggio, nato per rispecchiare sul palcoscenico la figura storica di un imperatore asburgico. Assai più convincente il Sesto di Monica Bacelli, mentre Teresa Romano ha offerto una prova disomogenea nei panni di Vitellia: il giovane e promettente soprano è dotato di un timbro corposo e nitido insieme, ma alcuni acuti troppo urlati e qualche incertezza nei passi d’agilità hanno leggermente sporcato la sua interpretazione, che inoltre è parsa fuori asse rispetto alla statura tragica del ruolo. Buone le voci di Elena Monti (Servilia), Francesca Russo Ermolli (Annio) e Vito Priante (Publio). La direzione di Jeffrey Tate è apparsa poco incisiva in più di un luogo: il coro «Serbate, o dei custodi» viaggiava a una velocità inutilmente vertiginosa, che per di più ha creato qualche problema di allineamento degli attacchi; la grandiosa costruzione del finale del primo atto avrebbe richiesto una scansione più compatta e serrata; poco condivisibili, e di non poco nocumento per il ritmo drammatico, sono risultati infine i rallentando troppo dilatati imposti ad alcune arie.
Non ha giovato al risultato complessivo la regia di Luca Ronconi, che ha costretto l’azione entro una scena pressoché fissa (le pareti imbottite, trapuntate e bronzo-dorate di Margherita Palli, un po’ sala d’aspetto di studio notarile, un po’ camera d’isolamento di ospedale psichiatrico), neutralizzando quasi del tutto quelle dialettiche spaziali - interno/esterno, privato/pubblico - che sono fondamentali per il decorso rappresentativo e per la stessa resa musicale. Poche le idee, alcune delle quali inutilmente didascaliche; tra queste, un mega-trono sempre in primo piano, certo concepito per suggerire lo «spazio infinito» (così il libretto di Metastasio-Mazzolà) che separa Tito dai suoi sudditi, ma che finisce per assomigliare di più a un grottesco seggiolone. Interessanti le facelle che ardono nelle mani dei congiurati, capaci di conferire un particolare lucore al momento cruciale che precede l’attentato all’imperatore; francamente troppo esile, invece, la simulazione dell’incendio della città per mezzo del guizzo di fiamme che investe il lampadario prossimo al trono-seggiolone. I personaggi - che indossano gli eleganti abiti settecenteschi ideati da Emanuel Ungaro - si muovono poco e talvolta si trattengono troppo in scena, contraddicendo senza motivo le prescrizioni del libretto. Vista e rivista, infine, è la truppa d’assalto, qui in versione pantaloni mimetici e corpetto rigido, chiamata a raffigurare le milizie romane e intrappolata in una gestualità trita, con tanto di saluto a braccio teso.
Visto il
02-02-2010
al
San Carlo
di Napoli
(NA)