Firenze, teatro Goldoni, “La Dafne ” di Marco da Gagliano
DAFNE ALL'OSPEDALE
La prima e l’ultima opera si sono confrontate sul mito al Maggio Musicale e, dopo il ritorno all’archetipo con musica contemporanea di “Antigone”, è stata rappresentata “La Dafne” nell'interpretazione attualizzata di Davide Livermore. La Dafne, favola in musica di Marco da Gagliano rappresentata alla corte di Mantova nel 1608 per festeggiare le nozze di Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia, ribadisce il passaggio dalla musica di corte rinascimentale a quella barocca, innovazione avviata da Monteverdi l’anno prima con l’Orfeo, e presenta le caratteristiche proprie dell’opera: tensione, sviluppo drammatico, tragico epilogo.
Livermore nega l’ elemento pastorale per accentuare il taglio drammatico della favola, ambientandola in un ospedale per malati d’amore; il mito originario diventa così un punto di partenza per fare riflettere sui fantasmi contemporanei derivati.
La scena di Santi Centineo è inquadrata da una bianca cornice che definisce l’impianto prospettico e che è caratterizzata da elementi in rilievo dall’effetto bugnato, citazioni architettoniche del mondo culturale fiorentino del Cinquecento di cui da Gagliano fu attivo esponente, che evocano altresì guanciali di ospedale o celle d’isolamento dalle pareti imbottite. La scena è buia e spoglia con tre colori dominanti: il bianco della castità, il nero del male e del dolore con squarci di rosso, l’amore come sangue e passione.
Dafne e le ninfe sono monache infermiere, scelta forte ma motivata in quanto rimanda all’interpretazione cristiana del mito di Dafne, casta vergine che chiede la morte per fuggire l’amore carnale, fiorentino giglio, simbolo di purezza e virtù. A supporto iconografico di questa interpretazione, Livermore cita un’immagine copta del III secolo d.C. in cui Dafne ha la palma del martirio (e non l'alloro) e dona un crocifisso ad Apollo.
Apollo è inizialmente il medico che con un’iniezione libera il mondo dal male, ovvero il serpente, che simboleggia l’orrore che l’uomo ha dentro di sé, il lato oscuro dell’esistenza, le nostre paure, i nostri tabù.
E quando il coro, in una pagina musicale coinvolgente e di grande portata drammatica, evoca con orrore le persecuzioni operate dal mostro, la scena è buia e le ninfe e i pastori cercano di contrastare il male dell’anima agitando deboli lumini per poi fondersi, intrecciandosi gli uni con gli altri, in un abbraccio coeso per fronteggiare la paura, che ricorda il disperato intreccio del Lacoonte. E alla fine della scena l’ Eco musicale al lamento dei pastori si traduce a livello visivo in un freddo lampo in un cielo cinereo.
Non c’è nulla di luminoso e marmoreo in Apollo, rappresentato nella sua caduta: la divinità, inizialmente vittoriosa, il dottore per l’appunto, diventa malato di mente in camicia di forza, schiacciato fra le due pareti nel lamento finale alla forma chiusa e senza speranza, e le mani del Dio sono moncherini di alloro, la mutilazione dell’amore.
In un dramma più raccontato che agito, Livermore crea un secondo piano visivo in cui, oltre la parete trasparente, si vedono, come incastonati, i fotogrammi del racconto di Ovidio e di Tirsi. La metamorfosi di Dafne viene risolta con una serie di istantanee veloci: Dafne in fuga, Dafne violata contro il muro, fino allo shock finale dove la scena vuota, anziché raffigurare “l’arboscel fiorito e verde “ cantato da Tirsi, con un madrigalismo rovesciato, si tinge di rosso.
La rilettura del mito non è priva di ironia e nello spettacolo ci sono sprazzi giocosi che fanno sorridere lo spettatore, suggerendo immagini riconoscibili di un vissuto collettivo, i nostri “ miti quotidiani”: Giamburrasca/Amore che fa i dispetti alle suore e strappa le foglie dell’alberello annaffiato con devozione dalle monache, Venere vanesia e borghese che balla con il poeta Vate Ovidio, le suore fra erotiche pulsioni e flagellazioni a colpi di cuscino..
Un cast adeguato e dal movimento scenico curato ha contribuito a coinvolgere il pubblico.
Furio Zanasi ha sottolineato con efficacia il mutamento di Apollo e la tragedia del male d’amore. Con voce salda e luminosa ha creato un personaggio intenso e di varia espressione.
Paola Quagliata disegna un Amore vivace e credibile, enfant terribile simpatico e dispettoso dalla chioma rossa e ricciuta, meno convincente a livello vocale, presentando qualche difficoltà di emissione.
Roberta Invernizzi è una casta Dafne, dalla voce dolce e suadente.
François Nicolas Geslot è un ottimo Tirsi, partecipe e delicato, capace di lirismo e di differenziare tempo e intensità .
Giorgia Milanesi è una Venere seducente e frivola di efficace presenza scenica ma con qualche forzatura vocale. Luca Dordolo è un autorevole Ovidio, illuminato da umana comprensione per le sue creature.
I tre pastori sono Paolo Cauteruccio, José Daniel Ramirez e Riccardo Dernini.
Il direttore Gabriel Garrido, specialista nel repertorio rinascimentale e barocco, ha diretto con intensità e partecipazione l’Ensemble Antonio Il Verso, facendo scaturire una grande ricchezza sonora, irradiata di calore e umanità, dando il giusto risalto alle situazioni drammatiche e alle sonorità di alcuni strumenti, in particolare i liuti.
Antonio Greco ha ben diretto il Coro Costanzo Porta, che si è confermato di ottimo livello tecnico e interpretativo e si è distinto per musicalità, precisione e intensità sia negli interventi solisti che nei momenti di insieme caratterizzati forza e omogeneità.
Una produzione applaudita dal pubblico, con una lettura che, al di là di qualche isolato dissenso, stimola, avvince e invita alla riflessione .
Visto a Firenze, teatro Goldoni, il 31 maggio 2007
ILARIA BELLINI
Visto il
al
Ponchielli
di Cremona
(CR)