La dama di picche, opera bellissima ma di indubbia difficoltà esecutiva, è stata rappresentata in precedenza una sola volta a Roma, nel 1956: le presenti recite sono state dunque imperdibili in un allestimento “storico” coprodotto tra Cardiff, Oslo, Bologna e Toronto in sostituzione di quello annunciato con la regia di Peter Stein.
L'opera trae ispirazione dal racconto omonimo di Puskin, inquietante storia di un'ossessione che porta il protagonista alla rovina, alla follia e alla morte. L'autore del libretto, fratello del compositore, trasforma la vicenda originaria in una tenebrosa storia d'amore e di morte, la passione travolgente e fatale di Hermann per Liza, ambientata all'epoca di Caterina la Grande. La musica tesse una rete di corrispondenze simboliche tra l'azione e i sottintesi occulti, rivelati dalla trama delle continue citazioni e dei motivi ricorrenti (il gioco, l'amore, il destino). Un clima emotivamente tormentato pervade tutta la partitura e il fantastico appare molto più legato agli abissi della psiche umana che non ai misteri dell'aldilà. Tutto resta inquietantemente sospeso. Lo stesso riferimento al Settecento, dal punto di vista sia del ricorso ai materiali musicali sia dell'ambientazione, e i sostanziali cambiamenti del libretto rispetto al racconto di Puskin sono il segno di un disagio profondo del compositore nei confronti del presente, il vagheggiamento di un mondo irrimediabilmente perduto, lo sbilanciarsi pericolosamente su un abisso sinistro e perturbante: l'abisso dell'insondabilità dell'animo. L'epoca in cui Cajkovskij scrive, il 1890, è, infatti, quella delle affascinanti teorie di Bergson (Il tempo come durata) e Schopenauer (Il velo di Maya), che cancellano l'idea di uomo-padrone-del-tempo-e-dello-spazio, proponendo anzi un uomo impantanato in una crisi profonda e sempre più immerso nelle pieghe del suo animo, che al tempo stesso attirano e impauriscono, inspiegate fino alle rivelazioni freudiane.
Richard Jones sfronda il grand-opéra a vantaggio di una dimensione più interiore e psicologica: dall'inizio è subito chiaro che l'inconscio sottende alla storia che si racconta e l'inquietudine privata dei protagonisti presto si allarga a dimensione collettiva. Dopo il vuoto del primo quadro (un surrealismo quasi magrittiano), la camera di Liza pare vista da fuori e claustrofobicamente piccola (il grande lucernario sul soffitto aumenta il senso di disagio), dominata da una sorta di immobilismo decadente; la camera della Contessa è praticamente identica, solo il letto è più sontuoso. Il vuoto domina anche il momento del ballo con i coristi che affollano lo spazio illividiti dalle luci. Le scene successive insistono sulla presenza concreta e inquietante del fantasma (scheletro) della Contessa che si impadronisce della mente di Hermann. Un'ossessione era parsa fin dall'inizio l'immagine sul sipario del volto giovane della Contessa, poi invecchiato con pennellate alla Munch e trasformato in una sorta di inquietante fantasma. La pantomima, efficacissima, usa le marionette ma impiega anche i cantanti come fossero marionette: un momento di grande suggestione.
Le scene e i costumi di John Macfarlane ambientano l'azione in un tempo tra Otto e Novecento, contemporaneo alla scrittura della partitura, ma il plot non ne risente, così anche per l'eliminazione dei riferimenti alla Russia e all'epoca degli zar a vantaggio di un racconto universale. Perfette ed essenziali al racconto le luci di Mario De Amicis. La regia è stata ripresa a Roma in modo eccellente da Benjamin Davis.
Eccellente la direzione di James Conlon che esalta la ricchezza sinfonica della partitura, pulsante e trascinante fino a diventare incandescente, per rendere il crescere dell’ossessione in una mente sconvolta, pur nel rispetto del peso delle voci, bene amalgamate con la musica in un vortice senza scampo. Il direttore non dimentica mai l'opulenza ottocentesca alla base della partitura ma, al tempo stesso, sottolinea le pennellate già espressioniste che guardano al Novecento. Ottima la prova del coro, dal ruolo impegnativo e diversificato, preparato da Roberto Gabbiani.
Straordinario il tenebroso e romantico Maksim Aksenov per l’immedesimazione nel ruolo di Hermann, risolto con sguardo stralunato e febbrile, il gesto inquieto e il fraseggio sentito, particolarmente adatti per trasmettere i sentimenti ossessivi che lo divorano (odio, amore, desiderio di rivalsa, passione per il gioco); volto pallido e fisico asciutto, Aksenov sembra uscito da una pagina di letteratura, così giovane e maledetto da rendere credibile l’insana passione di Lisa; alle prese con un ruolo “estremo” che richiede maturità vocale e artistica, il tenore ha acquisito spessore e forza declamatoria e il suo canto è espressivo e capace di sfumare e di arrivare facilmente all’acuto, rifulgendo nella dichiarazione d’amore appassionata. Di grande spessore drammatico, seppure dimessa nell'abito e nel contegno per scelta registica, la Lisa di Oksana Dyka ha voce potente e piena e risolve i punti più impervi con acuti sicuri, pur non trascurando i momenti riflessivi e di ripiego, intimi e delicati. La Contessa di Elena Zaremba cattura l'attenzione del pubblico quando è in scena, di grande efficacia soprattutto al momento della morte nella vasca da bagno. Disinvolto e sicuro, dal fraseggio ben chiaroscurato, il Tomskij di Tòmas Tòmasson. Preciso e con bella voce il Principe Eleckij di Vitalij Bilyy dal contegno quasi consapevolmente rassegnato: la sua grande aria, delicata e struggente, cattura per la cura delle sfumature e le doti interpretative. Elena Maximova è una brava Polina e guida lo stuolo dei comprimari, tutti adeguati ai ruoli.