Torino, Teatro Regio, “La dama di picche “ di Piotr Ilic Thchaikowskij
MAGNETICA OSSESSIONE
La Dama di picche concilia l’intimismo lirico-sentimentale proprio di Tchaikowskij con le esigenze più spettacolaridel teatro musicale francese dell’epoca per la presenza di divertissement e numerosi interventi corali. L’opera è tratta dall’omonimo racconto di Puskin, modificato per ottenere un maggiore risultato melodrammatico ed essere più vicino alla sensibilità del compositore, che in quest’opera crea un personaggio nuovo per il teatro dell’epoca, un “diverso” impossibilitato ad amare (dai forti risvolti autobiografici), affetto da angoscia, schizofrenia, nevrosi, molto moderno e vicino all'oggi.
La Dama di picche, opera pregnante ma di indubbia difficoltà esecutiva, torna ora dopo più di quarant’anni a Torino in una nuova produzione affidata a Denis Krief . L’impianto scenico è scabro, caratterizzato da un pavimento leggermente sopraelevato, dalla geometria spigolosa, simbolo di una mente spezzata, verde come un tavolo da gioco che prelude al tragico epilogo. Uno schermo bianco funziona da quinta scenica per ricreare ambienti più intimie accogliere le ombre delle silhouettes di Lisa ed Hermann nella scena d’amore. Il minimalismo, cifra stilista di Krief, è talmente estremo che si vedono ai lati del palcoscenico muri grezzi con impianti elettrici a vista; unico elemento d’arredo una poltrona rossa per la stanza di Lisa come per quella della Contessa.
Nel secondo atto un teatrino ligneo di corte con palchi praticabili affiora dal buio e, con una efficace mise en abyme, accoglie fra fondali rococò l’intreccio delle coppie della pastorale, leziose statuine di biscuit osservate dai nobili imparruccati vestiti di nero. Questa scena, quasi a sorpresa, è molto accurata a livello visivo per segnalare l’unico momento di tregua dal dramma in una rassicurante atmosfera settecentesca di derivazione mozartiana pervasa di gioco e ironia. Dopo la pantomima tutto diventa più cupo, in una spirale ad alta tensione che conduce inevitabilmente alla catastrofe. Il pavimento romboidale si divide in due, creando un abisso di separazione fra Lisa e Hermann, le cui mani non riescono a congiungersi in un disperato anelito d’amore, e la fessura diviene la Neva illuminata da una luce azzurrina da cui uscirà di scena Lisa. Alla fine una luce fosforescente illuminerà il tappeto verde da gioco, leit –motiv della regia, causa e al tempo stesso luogo di morte per Hermann.
Il minimalismo estremo di scene e costumi non ricrea la giusta cornice ambientale, peraltro determinante nello sviluppo narrativo, ma genera forte concentrazione, facendo convergere tutto nella psicosi di Hermann (sempre presente in scena e inizialmente rafforzato da un suo doppio) e pervade di una tensione unificante un’opera per natura composita.
Un cast vocale di notevole intensità espressiva è stato determinante per il successo della produzione.
Interessante il giovane Maksim Aksenov per l’ottima immedesimazione nel ruolo di Hermann, risolto con sguardo stralunato e febbrile, a tratti cattivo, il gesto inquieto e il fraseggio sentito, particolarmente adatti per trasmettere i sentimenti ossessivi che lo divorano (odio, amore, desiderio di rivalsa, passione per il gioco). Dal volto pallido e dal fisico asciutto, stretto nel cappotto col bavero alzato, Aksenov sembra uscito da un romanzo di Dostoevskij, così giovane e maledetto da rendere credibile l’insana passione di Lisa. Alle prese con un ruolo “estremo” che richiede maturità vocale e artistica, la bella voce lirica manca di spessore e forza declamatoria, ma il canto è espressivo, capace di sfumare e arriva facilmente all’acuto, rifulgendo, oltre che nella dichiarazione d’amore appassionata, nel finale.
Di grande spessore drammatico la Lisa di Svetla Vassileva, ipersensibile e appassionata, che declina con lo sguardo intenso, il movimento delle mani, il trattenere il respiro tutte le sfumature della passione. La voce lirica e screziata trasmette quell’inquietudine mista a dolcezza propria dell’anima russa, risolvendo i punti più impervi con acuti sicuri, mettendo nel ruolo voce e anima, sfidando i propri limiti con grande generosità.
La Contessa di Anja Silja ci aveva già incantato a Vienna per il carisma, la bellezza sfiorita ma ancora seducente, il gesto sensuale con cui lasciava scivolare il vestito dalle spalle e, anche qui, un ruolo “comprimario” diventa protagonista.
Stupenda per come si passa il rossetto contemplandosi allo specchio mentre la canzone di Getry si spegne sulle labbra come una nenia funebre. Una donna vecchia che spera in un sensuale abbraccio e che respinta si vendica. Non importa se la voce manca di peso, bastano uno sguardo e la risata. Quando è in scena catalizza l’attenzione e un brivido corre lungo la schiena e si prova una sensazione di attrazione mista a repulsione che ci porta ad identificarci con Hermann e vediamo come allo specchio i nostri desideri e le nostre paure.
Disinvolto e sicuro, dal fraseggio ben chiaroscurato, il Tomsky di Vladimir Vaneev; troppo generico il Principe Eleckij di Dalibor Jenis e la sua grande aria, così delicata e struggente, passa inosservata per mancanza di sfumature e doti interpretative. La vocalità di Julia Gersteva si rivela particolarmente adatta al repertorio russo: nella parte di Polina risplende in tutta la sua opulenza vocale e rivelando buona disinvoltura scenica nella pantomima.
Eccellente la direzione di Gianandrea Noseda che, forte di una formazione in Russia maturata con Valery Gergiev , è emotivamente e culturalmente vicino a quest’opera di cui sembra intuire le recondite ragioni. Noseda dà libero spazio alla ricchezza sinfonica della partitura, pulsante e trascinante fino a diventare incandescente, per amplificare il crescere dell’ossessione in una mente sconvolta. Il direttore esalta i contrasti timbrici dando grande rilievo agli strumenti solisti, l’amore ossessivo espresso dal violoncello, il livido incalzare delle viole, il salmodiare degli archi, evidenziando i temi di un destino avverso (che ricordano gli accordi funebri della sesta sinfonia) in un vortice senza scampo, per poi sfumare alla fine con un dolce pianissimo di umana pietà e comprensione.
Ottima la prova del coro, dal ruolo impegnativo e diversificato, preparato da Roberto Gabbiani.
Grande entusiasmo da parte di un pubblico caloroso che ha tributato pieno consenso a tutti i cantanti e autentiche ovazioni al “proprio” direttore.
Visto a Torino, Teatro Regio, il 24/05/09
Ilaria Bellini
Visto il
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Regio
di Torino
(TO)