"Canzonette da ciabattini" definisce Shakespeare quelle cantate dagli ubriaconi nella dodicesima notte dopo Natale, l'Epifania. "Calzolaio" extra lusso, Nicola Piovani ha confezionato musiche originali di straordinaria bellezza, con intelligenza artistica: non un sottofondo né una colonna sonora bensì vere e proprie musiche di scena, asservite intelligentemente (lo ripetiamo) alla funzione teatrale. Nell'economia globale dello spettacolo potremmo azzardare che la musica abbia costituito la linea armonica e la drammaturgia quella melodica. Note e pause rivestenti mansione scenografica, andate a comporre un discorso narrativo in simbiosi con la regia, nel rispetto (intelligente!) del ritmo letterario del Bardo di Stratford-on-Avon. "Se la musica è il cibo dell'amore, ne voglio ancora". Teatralmente perfetto.
Nel dilagare di allestimenti spogli che male celano, dietro presunte esigenze oniriche, la contingenza di rientrare in budget sempre più ridotti all'osso dalla crisi generalizzata, con gioia abbiamo constatato come ci sia vuoto e vuoto. Nella sapiente concezione registica di Carlo Cecchi, avvezzo a misurarsi con gli spazi "altri" del teatro di innovazione, si è trattato di vuoto non-vuoto. Assenza e non mancanza. Cecchi ha declinato i propri modi con rispetto per la sostanza shakespeariana; si è sganciato dai legami del realismo per poi aver riconvertito la struttura retorica nella forma teatrale, pubblica perciò necessitante di immediatezza, come era alle origini questa "festive comedy". Aperta la gabbia filologica, la fantasia degli spettatori ha spaziato, nitidamente indirizzata da pochi, significativi elementi: una panca, un letto, una siepe. La funzione descrittiva è stata demandata ai costumi di Nanà Cecchi (nessun grado di parentela tra i due): un settecento modernizzato, dai tessuti cangianti in un tourbillon di colori e fogge.
"La follia è come il sole: va in giro per il mondo e splende ovunque". Grazie anche a Patrizia Cavalli autrice dell'efficace versione italiana, Cecchi ha registicamente tradotto l'intraducibile termine inglese "fool", avendo collocato l'insensatezza shakespeariana buffonesca, ingannevole, illusoria, priva di consistenza tangibile, su una piattaforma rotante, apparentemente semplice, che oltre ad aver conferito movimento all'azione, si è rivelata esaustiva nel più impegnativo compito di proiettare l'ottica in una dimensione impalpabile, di eterea leggerezza, di girevole mutevolezza. "Gira gira, il tempo si vendica di tutto". Una giostra di pensieri che, per dirla con Baudelaire, "versano la follia su un ballo vertiginoso".
Il "correttore di parole" Feste (Dario Iubatti) afferma: "Io leggo solo la pazzia". Così pure Cecchi, in un carillon di equilibri dove il tragico non suonava drammatico e il comico cantava la tristezza. Un allestimento fresco, come giovane era l'età media degli interpreti (su tutti, veramente bravi, segnaliamo l'astro nascente di Eugenia Costantini, figli d'arte, Loris Fabiani, Sir Andrew "cretino" di gran classe e Antonia Truppo, cameriera/deus ex machina). Una linea registica fluency, scorrevole, riassumibile nel personaggio di Malvolio, interpretato dallo stesso Cecchi, libratosi sopra, mai fuori, le righe, con elegante poetica malinconia.