Continua al Teatro Malibran di Venezia l'esplorazione del teatro di Antonio Vivaldi. In scena quasi tutte donne. Dorilla è la brava Manuela Custer: canto in purezza, temperamento vivace, bella intensità espressiva.
Continua al Teatro Malibran di Venezia l'esplorazione del teatro di Antonio Vivaldi, progetto avviato da La Fenice l'anno scorso con l'Orlando furioso, con un significativo antecedente nella duplice messa in scena, nell'ottobre 2007, di Bejazet e di Ercole sul Termodonte.
E se allora concertava Fabio Biondi, questa volta le riproposte son sinora affidate a Diego Fasolis, altra personalità di spicco del repertorio barocco. In realtà, La Dorilla in Tempe non è tutta farina del Prete Rosso. Creata nel 1726 al Sant'Angelo e più volte ripresa sino al 1734, in essa mescolò musiche ad arie proprie con molte pagine di Hasse, Sarro, Leo, Giacomelli, e di altri compositori non identificati.Quello che un tempo si diceva un pasticcio, fastoso lavoro solitamente collocato in apertura di stagione. Un florilegio del melodramma del tempo, con autori di diverse generazioni: per questo Dorilla – pur non possedendo la ricchezza musicale né la compattezza drammatica di Orlando, Farnace, Tito Manlio – ben meritava di rivivere.
Dal podio, grande equilibrio
Nell'unica versione pervenutaci, non datata, La Dorilla è nondimeno opera ben costruita, e presenta una buona varietà espressiva: gli “affetti” ci sono un po' tutti, dal melanconico all'agitato, dal gioioso al drammatico; e non mancano bei momenti corali di commento o di colore. Ma soprattutto possiede una vorticosa spinta propulsiva, data dalla prevalenza di tempi spediti, quasi a compensare l'inerzia del libretto ”eroico-pastorale” del Lucchini.
Concerta, dirige, siede al cembalo Diego Fasolis: garanzia di proprietà stilistica, e di una lettura sobria ed equilibrata. In più, ricca di fantasia, di colori e di trasporto teatrale. Sotto le sue mani Orchestra e Coro de La Fenice alleggeriscono i suoni, acquistano duttilità, trovano varie e belle tinte; qualche specialista prestato dai 'suoi' Barocchisti, e qualche rinforzo per il basso continuo, fanno il resto.
In scena quasi tutte donne. Dorilla è la brava Manuela Custer: canto in purezza, temperamento vivace, bella intensità espressiva. Analogo apprezzamento per la densa vocalità e l'agile virtuosismo di Lucia Cirillo, Elmiro. Appena un gradino sotto il buon Noemio (in realtà il dio Apollo) di Véronique Valdès, il Filindo di Rosa Bove, l'Eudemia di Valeria Giradello. Discreto nerbo nell'Admeto del baritono Michele Patti.
Con la regia non ci siamo...
La regia di Fabio Ceresa – giocata sulla banale scena fissa di Massimo Cecchetto, una doppia candida scalea a sostenere un terrazzo - pecca di sovrabbondanza e di ampolloso barocchismo. Ghirlande mutevoli di fiori e di foglie suggeriscono il volgere delle stagioni. Un profluvio di mimi e danzatori impegnati in futili allegorie intralcia la scena, rimestando a vuoto in un'azione già di per sé stagnante. Non sappiamo poi quanti, fra il pubblico, abbiano colto la superflua rievocazione del supplizio del satiro Marsia, scuoiato vivo per ordine di Apollo. In sala, qualcuno ha giustamente protestato per una scena disgustosa.
I costumi di Giuseppe Palella rievocano la prassi d'epoca, eccedendo però in luccicanti lustrini e pailletes; curiosamente, veste i dignitari di verde come odierni chirurghi. Con tanto di mascherine, ma con le gambe nude in vista. I ballerini sono della compagnia milanese Fattoria Vittadini, le coreografie di Mattia Agatiello.