La fanciulla del West, Puccini e la febbre dell'oro

La fanciulla del West, Puccini e la febbre dell'oro

Nessuno avrebbe scommesso che un poeta delle piccole cose come Puccini potesse invaghirsi del soggetto insolito ed esotico de “The girl of the Golden West”. Eppure, visto che da oltreoceano si sollecitava un'opera nuova – e si offriva una miniera di soldi – l'argomento che vedeva radunati fra foreste innevate e fumosi saloon cercatori d'oro, fuorilegge e sceriffi cadeva a fagiolo: l'America civilizzata della Costa Orientale aveva i suoi miti, e il Selvaggio Far West e la febbre della Golden Rush erano tra le saghe preferite. Alimentate, di lì a un passo, dalle improbabili gesta cinematografiche di Tom Mix & soci.

Una messinscena che sarebbe piaciuta a John Ford

Correva l'anno 1910, e dunque Puccini presentava al Metropolitan di New York “La Fanciulla del West”, una delle poche sue opere in cui la protagonista – qui Minnie, padrona del saloon “Polka” - non fa una brutta fine, anzi. Alla fine se ne scappa con il suo amante, il redento bandito Ramerrez.
Opera ricchissima di tinte e situazioni, corale quant'altre mai con ben 14 comprimari, ma che non sta nel cuore del grande pubblico, è difficile da portare in scena ed appare dunque di rado.

Benedetta quindi questa produzione Italia/USA partita dal North Carolina, transitata a New York ed arrivata ora da noi per un notevole giro di sale. Deus ex machina dell'operazione il bravissimo Ivan Stefanutti (in altra parte del sito troverete una sua intervista) che si è sobbarcato l'onere d'una profonda ed accuratissima regia, assai godibile pur senza scadere mai nel didascalico. Ricca di pathos e passionalità, riesce a trascinare in ogni momento lo spettatore, assecondando meravigliosamente la musica.
Stefanutti firma pure i variegati e puntuali costumi – non sfigurerebbero in un western di John Ford - e l'ingegnosa e densa scenografia, che vede il suo punto di forza nell'accorto impiego di evocative ed elaborate videoproiezioni, create con l'intento di conferire un tocco filmico all'insieme. E guarda caso, lo sfondo finale richiama il celebre “The End” della Paramount.

Interpreti adeguati, direttore così così

Dalle rappresentazioni USA giunge a noi anche il direttore, James Meena, che rinuncia a scavare a fondo nel lavoro pucciniano – strumentalmente una meraviglia di suoni ed invenzioni, che Mitropoulos vagheggiava di eseguire senza voci – preferendo un approccio coloristico e un po' magniloquente, volto a privilegiare gli aspetti più espressionistici e spigolosi della partitura, quelli che guardano a Debussy, a Strauss, a quella contemporaneità insomma occhieggiata e metabolizzata da Puccini. Una direzione, per di più, incline a sonorità turgide ed enfatiche (specie nei fiati) sino a coprire qua e là le voci.

Amarilli Nizza pare proprio nata per il ruolo di Minnie, debuttato ad Amburgo due anni fa accrescendo così le sue grandi interpretazioni pucciniane. Il personaggio è ben penetrato, grazie alla sensibilità interiore; la tessitura scomodissima - ai limiti del sadismo - affrontata e vinta grazie alla padronanza dei mezzi tecnici; e la padronanza scenica risulta sempre ammirevole. Enrique Ferrer supera con spavalderia, abbondanza di fiati e palese sicurezza le scoscese frasi musicali assegnate a Dick/Ramerrez, infondendo completezza e verosimiglianza alla sua figura. Quanto ad Elia Fabbian, consegna un Rance molto persuasivo, sia nel versante vocale che in quello attoriale. Affiatato e valido stuolo di comprimari, in cui spiccano Gianluca Bocchino (Nick), Giovanni Guagliardo (Sonora), Alessandro Abis (Ashby), Carlo di Cristoforo (Jacke), Sabina Cacioppo (Wowkle). L'Orchestra della Toscana e il Coro del Festival Puccini assolvono adeguatamente il loro compito.