Lirica
LA FAVORITE

La favorite a Venezia, finalmente in francese

La favorite a Venezia, finalmente in francese

Considerato il valore complessivo – l'essere cioè, sotto vari aspetti, il più compiuto tra i lavori che Donizetti destinò alle scene parigine, e comunque uno delle vette del suo folto catalogo – sembra impossibile che La favorite altro non fosse che un 'centone': l'assemblaggio cioè di pagine provenienti da altre opere. Grandissima parte deriva infatti dal recupero delle musiche de L'Ange de Nisida, un grand-opéra mai rappresentato per il fallimento dell'impresario del teatro cui era destinato (e che nondimeno conteneva già alcuni brani dall'incompiuta Adelaide); i rimanenti numeri sono poi autoimprestiti da Pia de' Tolomei, L'assedio di Calais, Le Duc d'Albe: lavoro, quest'ultimo, da cui giunge la famosa romanza «Ange si pur» («Spirto gentil», in italiano). Partitura compatta, matura, possente, dal linguaggio musicale ardito e moderno, che nel suo limpido fluire mette in gioco il contrasto tra passione erotica ed onore, La favorite è scomparsa poco alla volta a fine '800 dalle scene francesi; ma nelle due versioni italiane di Francesco Jannetti prima – Padova 1842, una Leonora di Guzman poco fedele al libretto originale -  od in quella successiva di Callisto Bassi (La Scala 1843) La favorita ha invece mantenuto il suo posto nei nostrani cartelloni, felice palestra per tenori di limpida indole lirica – grandissimi in questo il Fernando di Kraus e Pavarotti - e per mezzosoprani capaci di modulare, con tenera passione, le sue frasi musicali venate di delicata melanconia. Come la Stignani, la Cossotto, la Simionato, la Barbieri, grandi interpreti pronte a ripetere le gesta di Rosine Stoltz, la prima creatrice del ruolo di Léonor. La versione originale parigina del 1840 ha però ripreso, dopo la riproposizione al Festival di Bergamo 1991, un meritato primo posto; perché solo in tale veste emerge tutta la sua maggiore valenza, tenuto conto anche della profonda adesione di Donizetti al gusto di Oltr'Alpe, che esigeva tra l'altro un pregnante declamato. «La musica e la poesia francese hanno un cachet tutto proprio al quale ogni compositore deve uniformarsi, sia nei recitativi che nei pezzi di canto» scriveva da Parigi, con convinta adesione, il compositore all'amato maestro Mayr; e si era nell'aprile 1839, all'epoca cioè de Les Martyrs.

A Bergamo dirigeva allora – con un cast un po' rabberciato, lo testimonia la registrazione Ricordi - un giovane Donato Renzetti, che guarda caso ritroviamo 25 anni dopo sul podio dell'Orchestra della Fenice a presiedere questo allestimento coprodotto con l'Opéra Royal di Liegi. Molta acqua da allora è passata sotto i mulini, ma sopratutto contano alcune cose: che la versione francese è superiore ad ogni altra, come dimostra la revisione critica Harris-Warrick, ormai imprescindibile; e che qui a Venezia Renzetti dispone d'una compagnia consapevole di cosa sia il canto francese, d'una compagine strumentale ben più efficiente della modesta Orchestra RAI, e infine di un coro non certo trasandato come allora. I risultati sono complessivamente positivi, e non ci si può lamentare troppo; però si avrebbe potuto ottenere molto di più perché, forse per le poche prove o per poco lavoro di scavo, non tutti i tesori della partitura vengono portati in debito risalto. E così spiace constatare che Renzetti alla fine non vada al di là di una pur apprezzabilissima lettura ,che però sa un po' di routine, lasciando in secondo piano talora certe sontuosità delle invenzioni melodiche e la ricchezza dei mutamenti d'atmosfera, talune meticolosità musicali e preziosità timbriche che trapuntano la strumentazione. Con il merito, comunque, di porre adeguatamente in risalto la stretta e raffinata integrazione tra linea di canto e sostegno strumentale.

Il ruolo del titolo spettava alla nostra Veronica Simeoni, che si è avvalsa – come nella recente Carmen bolognese - del suo timbro scuro e del suono carnoso, vellutato, omogeneo nella gamma, e sostenuto da acuti pieni, varietà di colori, di espressioni, di fraseggio, per donare al pubblico veneziano una Léonor piena e commovente; la tempra da grande artista emerge franca nel suo meditativo «O mon Fernand», affettuosamente cesellato con il cuore e non certo con la testa. Quanto a John Osborne, è indubbiamente un interprete ideale per il complesso ed impegnativo ruolo di Fernand, vuoi per la condotta vocale generosa e pressoché impeccabile, vuoi per l'argentina limpidezza timbrica, per quei suoi acuti sciolti e svettanti, per il fraseggiare elegante e la nobiltà dell'accento: doti che emergono tutti insieme, ad esempio, nel suo sofferto e travolgente «Ange si pur».Di giunta, rilevante è nel cantante americano la ricerca espressiva, che guadagna piena credibilità ad una figura sfaccettata quanto poche altre, in bilico tra ingenui slanci adolescenziali e virile nobiltà d'animo, e bisognosa pertanto di un ampio ventaglio di espressioni e sfumature psicologiche.  Anche il personaggio baritonale del re Alphonse è non poco laborioso, sia vocalmente che dal punto di vista degli scarti psicologici; e quindi parimenti bisognoso di un'accurata ricerca di  chiaroscuri. Qui viene felicemente posto nelle cure del bravissimo Vito Priante, che nell'offrire una linea di canto possente ed impeccabile – quasi al limite della miniatura - sa farne emergere ogni sfumatura, aristocratica o veemente passionale che sia. Il basso coreano Simon Lim consegna un Balthazar autorevole nella solida ed ineccepibile linea melodica – «Le cieux s'emplissent» è buona lezione di canto - ma anche un po' compassato nella sua fredda spietatezza; il giovane tenore peruviano Ivan Ayon Rivas infonde vigore, con un voce senza dubbio molto interessante e promettente, al ruolo secondario di Don Gaspar; Pauline Rouillard è una modesta Inés, Salvatore De Benedetto ricopre adeguatamente il ruolo comprimario del Signore. Un plauso più che meritato al Coro della Fenice, ben preparato da Claudio Marino Moretti.

E veniamo per finire alla regia di Rosetta Cucchi, che non persuade già per le stravaganti premesse di partenza: quelle di calare la storia in un indefinito ed algido mondo a venire, nel quale la donna è relegata ad obbedire, senza possibilità di obiezione o di rivalsa, alle volontà del suo contraltare maschile; e nel quale schiere di monaci – invece di pregare sulla tomba di San Giacomo – sono impegnati a preservare amorosamente in lunghe schiere di teche tante piccole piantine, ultime testimonianze di una Natura con ogni evidenza ormai soccombente. Per il resto, non ha saputo offrire che un susseguirsi di movimenti e di scene poco comprensibili – anche il meschino balletto à deux di Luisa Baldinetti, coreograficamente parlando, girava a vuoto - con cortei di figure senza volto, gesti enigmatici, spropositate violenze maschili; e su tutto aleggia la sensazione d'una qual assenza d'idee che non porta da nessuna parte. E pure i costumi senza tempo e senza stile firmati da Claudia Pernigotti, e le astratte e futuristiche scene ideate da Massimo Cecchetto – entrambi peraltro senza precisi riferimenti, sì che potrebbero andar benissimo per altre diverse occasioni – al pari delle asettiche video proiezioni di Sergio Metalli, non appaiono nell'insieme capaci di suscitare nello spettatore forti impressioni. Luci a cura di Fabio Barettin.

(foto di Michele Crosera)

Visto il 10-05-2016
al La Fenice di Venezia (VE)