La Compagnia Scimone Sframeli nasce nel 1994, dalla collaborazione artistica tra Spiro Scimone e Francesco Sframeli.
“La festa”, è il primo testo scritto in lingua italiana di Spiro Scimone, autore tra i più interessanti e originali della nuova scena drammaturgica italiana, ha vinto il premio Candoni Arta terme per la nuova drammaturgia 1997. il testo è stato messo in scena per la prima volta nel 1999, con la regia di Gianfelice Imparato e interpretato dallo stesso Scimone in coppia con Sframeli. Sframeli&Scimone sono ormai una coppia efficace e collaudata, i loro spettacoli sono ironici e intelligenti, e vengono rappresentati in tutta Europa.
“La festa” si apre con una conversazione che intuiamo in corso, l’ambiente è una modesta abitazione popolare, i personaggi sono denominati solo con il loro ruolo: Madre e Padre.
È interessante sottolineare questa prevalenza di anonimato nella storia di due persone senza nome in un luogo senza definizione. In effetti il dialogo sembra di proposito voler evitare ogni definizione, ogni chiarificazione. Sapremo solo che la sera dovrebbe essere festeggiato un anniversario, da qui il titolo dello spettacolo, che più che una funzione semantica, svolge una funzione evocativa. Il dialogo appare fin dalle prime battute un “non dialogo”, cioè in sostanza una giustapposizione, priva di qualsivoglia dialettica, di affermazioni in gran parte tra il banale ed il faceto che nulla sembrano volerci far capire. L’uso di “banalizzanti” è subito evidenziato già dalla scena di apertura, che utilizza ed enfatizza l’uso e l’abuso di frasi sul tempo meteorologico, tipica modalità del discorso privo di profondità (“non esistono più le mezze stagioni”). Con queste modalità viene subito resa esplicita la morte del dialogo, inteso come “espressione di un mondo di rapporti intersoggettivi, in un mondo la cui misura è l’uomo”, citando Peter Szondi. Se non c’è dialogo allora non ci sono neanche soggetti e personaggi ma solo figure. In effetti i due parlanti non hanno nome proprio, ma solo il nome della maschera che indossano. Sono sintomatici di tutto ciò alcuni elementi della scrittura scenica che si articola essenzialmente in un mondo a due dimensioni: la scena appare un fondo piatto su cui i personaggi sono proiettati quasi come figure virtuali di un film,i mobili sono “evocati”, “riassunti” in pochi sedili che scendono direttamente dalle pareti e sui quali, seduti, padre, madre e figlio mimano il rito della colazione e dei pasti, unici momenti in cui “teoricamente” la supposta famiglia si dovrebbe riunire, se mai riuscisse a farlo.
Scimone interpreta la madre e la sua decisione è di interpretarla non en travesti, ma senza parrucche o trucchi, solo una semplice vestaglietta femminile: applicando un meccanismo di negazione, più che di straniamento. A fare da contraltare all’assenza di dinamismo nel dialogo e nella drammaturgia, vi è l’introduzione di un elemento di prospettiva, esterno, quasi posto fuori dalla scena: la novità di Scimone, che sino ad allora aveva scritto solo pièces a due personaggi, è l’inserimento di un terzo personaggio, dotato di nome, Gianni, il figlio.
È rispetto a questo personaggio nuovo, dotato di nome proprio, e di una sua autonomia drammatica, che Padre e Madre cominciano a definirsi, infatti è nei dialoghi tra la madre e Gianni, e tra madre e padre che hanno per oggetto Gianni che le vicende acquisiscono profondità. Grazie a questa articolazione ci vengono rivelati o evocati tramite suggestioni, inquietanti retroscena, pericolose frequentazioni e ci viene suggerita una minaccia incombente, un potere altro – tratto tipico dei due precedenti testi “Nunzio” e “Bar”.
Nel dialogo non c’è movimento, non c’è sviluppo, potremmo invertire la sequenza delle scene e difficilmente ce ne accorgeremmo: in conclusione non c’è dialogo e dunque non ci sono neanche personaggi perché questi dovrebbero definirsi solo attraverso il dialogo.
Ne “La Festa” le battute sono in gran parte prive di referenti, in quanto nessuno sembrare rivolgersi all’altro, ma solo continuare un suo discorso interiore.
Ogni personaggio, in particolare la madre, continua a definirsi secondo una propria linea che raramente si interseca con quella di un altro, ma si limita ad affiancarlo. Ne scaturisce un effetto di ripetizione per il quale una stessa battuta viene reiterata più volte senza trovare connessioni con altre, fino a scomparire quasi per esaurimento ma senza il beneficio di una qualche risoluzione. Le vicende, dunque, che si presentano ripetutamente sulla scena sono poche: il padre che russa, il figlio che torna tardi, chi dei due si ubriaca, la torta e lo spumante da comprare, un fantomatico lavoro minacciosamente pericoloso.
Su questa trama si innestano le ossessioni della madre ed i suoi “disperati” tentativi di dare una definizione di famiglia a questi personaggi che si aggirano sulla scena: sono essenziali per questo una torta ed una bottiglia di spumante, perché bisogna festeggiare l’anniversario.
La torta e lo spumante, però, arriveranno con tempi e modi sbagliati, come anche i regali (il cappello rosso ed il maglione grigio), non riuscendo ad innescare alcuna dinamica, poiché non sono vicende ma immagini, ricordi, sogni, quindi non possono fare parte del dialogo e dunque del dramma. Tutto rimane fermo, non c’è movimento, non c’è dialogo e non c’è dramma, non ci sono personaggi. Nel lavoro di Scimone i personaggi non hanno esistenza, il dialogo non ha alcuna reciprocità, la vicenda non ha praticamente sviluppo. Lo spettacolo è il continuo rimando ad un fuori di sé che è, al contempo, l’interiorità che i personaggi non mostrano mai ed il contesto esterno fatto dai nostri pensieri, dalle nostre esperienze e dalle nostre emozioni. Scimone si contraddistingue per l’indubbia abilità di una scrittura che sfrutta assonanze e musicalità. Priva i suoi “personaggi” di profondità e prospettiva, e li fa diventare una sorta di insieme di voci echeggianti nel vuoto di una scena piatta, come se fossero ombre.
Scimone non costruisce una pièce che parla di personaggi teatrali, quanto piuttosto sembra tentare di costruire un dramma in cui i personaggi sono direttamente mostrati per quello che in realtà sono sempre nel teatro: finzioni. Scimone sembra voler portare in scena l’inganno del “come se”, la convenzione teatrale, mostrandocelo per quello che è effettivamente: un inganno.
Lo spettacolo ha un’eccezionale potenza espressiva e una notevole efficacia comunicativa.
Scimone interpreta in maniera garbata e misurata il ruolo della madre, contraddistinguendosi per compostezza e ironia. Il padre è interpretato da un’eccellente Francesco Sframeli, che costruisce un personaggio grottesco, caratterizzato da un’aggressività meccanica e latente che controllata sapientemente. Gianni, il figlio, è interpretato da un talentuoso Gianluca Cesale, che esibisce una fisicità animalesca, lasciando trapelare il senso di disorientamento e la noia che caratterizza il suo personaggio, un disadattato.
I tre personaggi sono “anime alla deriva”, impregnate di un’atmosfera densa di dolore, impotenti e imprigionati nella loro vita.