Carla Moreni ha raccontato, in un affollato incontro organizzato dall'associazione Sferisterio cultura nell'ambito degli “aperitivi culturali”, come Verdi amasse le storie giovani e come la Forza sia una storia giovane, una storia tra ragazzi. L'opera nasce da una forzatura del silenzio in cui Verdi si era rifugiato dopo l'unità d'Italia nell'amata Sant'Agata, lui alfiere del Risorgimento appena eletto nel parlamento a Torino. Verdi era intento alle cure della sua casa e della sua campagna, dopo avere sposato (in gran silenzio) Giuseppina Strepponi. Questo silenzio fu forzato da un tenore italiano di origini rumene, in quel momento a San Pietroburgo, che gli chiedeva un'opera per quella città. Verdi accettò e scrisse molto velocemente, sostando però nella struttura drammaturgica (che elaborò nei sette anni tra la versione pietroburghese del 1862 e quella della Scala del 1869, in scena a Macerata). Ne esce un'opera diversa, che cavalca il tempo e non rispetta l'unità aristotelica. Carla Moreni ha efficacemente parlato di struttura “a doppia forcella”: primo e quarto atto brevi e impiantati in modo narrativo come una pièce di teatro; secondo e terzo sontuosi e ridondanti, fastosi nelle sonorità e pittorici nelle immagini.
Il nuovo allestimento di Pier Luigi Pizzi parte da un impianto comune per le tre opere in cartellone, che sfrutta lo spazio monumentale dello Sferisterio. In questo caso è sottolineata l'atmosfera notturna che pervade tutta l'opera, il luogo di un destino irrazionale.
Sul palco una pedana articolata in piani e pendenze giallo paglia; al centro un rialzo con gradini; il resto è vuoto. Unici elementi una grande croce nera leggermente aggettante (pende sul muro di fondo scena e, nella magnifica ouverture, proietta una lunga e sinistra ombra laterale) e delle grate che calano sulle tre aperture nel muro nei momenti conventuali.
Per quel che concerne i costumi, improntati a una uniforme severità, non si possono non ricordare le sinuose cappe dei monaci che ondeggiano sontuosamente al movimento dei corpi, in particolare nella bella scena della “Vergine degli angeli”, con i coristi disposti a doppia croce ai lati di Leonora.
Intenso il finale: sopravvivere in certe situazioni è più tragico che morire; Don Alvaro non può aggiungere altro alla parola “morta”: Leonora è morta, come morta è la loro storia d'amore. La morte di Leonora (rectius dell'amore di Leonora) rende Don Alvaro vecchio per sempre.
I movimenti dei cantanti sono funzionali al dispiegarsi della storia; Pizzi, (regista, scenografo e costumista) ha avuto come collaboratori Gheorghe Iancu per le atletiche coreografie e Roberto Maria Pizzuto per i movimenti coreografici di massa e mimici. La scena è stata suggestivamente illuminata da Sergio Rossi che, nel “Rataplan” ha proiettato un grande tricolore sul muro di mattoni.
Daniele Callegari ha preso alla lettera le indicazioni di Verdi ed ha diretto l'Orchestra Regionale delle Marche con tempi serrati, privilegiando le inclinazioni risorgimentali della partitura rispetto a quelle più liriche ed intime.
Teresa Romano è una Leonora di grande impeto drammatico, dalla voce imponente, potente ed incisiva che dà il meglio di sé nel registro centrale. Zoran Todorovich è un Don Alvaro corretto e con acuti saldi, seppure con poco piglio giovanile. Peccato che una laringite abbia impedito a Marco Di Felice di cantare: avremmo con curiosità ascoltato la sua bella voce in un ruolo così denso di espressività qual è Don Carlo (ruolo sostenuto vocalmente da Elia Fabbian in buca e attorialmente sul palco da Roberto Maria Pizzuto). Anna Maria Chiuri sente molto il ruolo di Preziosilla e ne dà una interpretazione generosa e coinvolgente, frizzante e fascinosa nei lunghi e colorati camicioni, nonostante qualche forzatura in acuto. Nel cast si è imposto il padre guardiano di Roberto Scandiuzzi: la voce bellissima ed espressiva, l'interpretazione autorevole (per vocalità e presenza scenica), il verso scolpito e cesellato, la dizione impeccabile ne fanno davvero un basso verdiano per eccellenza. Paolo Pecchioli ha strappato il sorriso alla platea con il suo Fra Melitone buffo e calcato nei toni della commedia. Annunziata Vestri è un'essenziale Curra, Ziyan Afteh un Marchese di Calatrava poco autorevole, Alessandro Battiato un medico distinto ed incallito fumatore. Completano il cast Giacomo Medici (un alcade), Paulo Paolillo (Mastro Trabucco), Cristiana Cecchi (una donna del popolo), Davide Filipponi, Massimiliano Luciani e Alessandro Pucci (soldati). Con loro il coro lirico marchigiano preparato da David Crescenzi.
Pubblico numeroso, applausi generosi durante la recita e alla fine per un'opera che mancava a Macerata da trent'anni e che è raro ascoltare nei teatri italiani.