Rientrate lestamente certe proteste che avevano accompagnato la prima settembrina de La forza del destino, opera chiamata ad inaugurare a Parma il Festival Verdi 2022 – motivate dall'utilizzo delle maestranze artistiche del Comunale di Bologna, anziché locali - possiamo ragionare con più serenità. Anche perché le repliche successive al Teatro Regio sono filate via lisce, compresa la nostra.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Un direttore di autentica tempra verdiana
Parliamo di direzione musicale, intanto. Alle prese con un drammone dalle fosche tinte, rischiarato solo da alcuni siparietti brillanti (gli interventi di Preziosilla e Melitone, cioè) Roberto Abbado rivela sempre maggiore affinità e consonanza con il lessico verdiano, replicando il pieno successo del Ballo in maschera dello scorso anno.
E' solo la seconda volta che affronta La forza del destino – la prima volta a San Francisco, nel lontano 1992 - e sceglie sempre la versione di Milano 1869, ora in versione critica Ricordi. Gli è di valido sussidio la maestria di esprimersi agevolmente in una dimensione di ampiezza e grandiosità, come quella che innerva La forza del destino - di cui possiede una nitida visione d'insieme; e la grande capacità di non far mai calare la tensione narrativa.
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Sbalzano così una lettura dai toni epici, la perfetta resa dei colori, la capacità di scavare nei caratteri, di impostare le pagine corali in potenti prospettive, di calibrare al meglio i piani sonori. Inutile dire che l'Orchestra ed il Coro del Comunale di Bologna – quest'ultimo curato da Gea Garatti Ansini – si sono distinti per affidabilità, nitore e precisione.
Ahi, ahi, che banale regia
Parliamo di regia, poi. Che è quella di Yannis Kokkos, cui dobbiamo anche generiche scenografie dove prevalgono le video proiezioni, e dove appare in primo piano la solita immensa croce (messa di sbiego, sai che novità!) ed i modesti, insignificanti abbigliamenti.
Regia destinata, crediamo, a non esser ricordata negli annali: superficiale nella drammaturgia (malgrado l'ausilio di Anne Blancard) e assai convenzionale nei movimenti e nella gestualità. E che ripete ancora invenzioni e stilemi del passato, ignara dei venti di novità degli ultimi decenni. Ad ogni modo, almeno è funzionale allo scopo ed arriva in porto senza intoppi.
Marta Bevilacqua cura le coreografie, fra le quali spicca al campo di Velletri - l'agitazione di marionette mascherate da scheletri capitanate da Preziosilla. Le luci sono di Giuseppe di Iorio.
Il leone tira fuori gli artigli
Gregory Kunde – ormai avviato verso la settantina, chapeau! – evolvendosi naturalmente il suo strumento ha deciso d'imboccare sentieri che lui – tenore belcantista e rossiniano in particolare – non aveva sinora mai percorsi. Anche verdiani, se del caso. Passando così da Don Ottavio, Almaviva, Arnoldo a Duca di Mantova, Alfredo, Otello; ed ora a questo Alvaro parmense che i suoi pregi li ha.
Certo, il registro grave è un po' carente di consistenza, la recitazione – suo eterno tallone d'Achille - resta un pochino sbrigativa; nondimeno balza all'orecchio l'intatta freschezza, la morbidezza ed agilità della voce, la sempre facile salita agli acuti, la varietà dei colori, la fluidità dell'emissione, la franchezza degli accenti.
Scenicamente più credibile risulta, senza dubbio, la Leonora dell'ucraina Liudmyla Monastyrska, che conquista la sala del Regio per una consapevole immersione nel personaggio, oltre che per una vocalità lussureggiante, fluente, calda, levigata in una gamma ben estesa e sempre omogenea. Pronta a consegnarci un «Pace, mio Dio» dall'intensa, astrale vaghezza.
E lo stesso vale per l'aristocratico Don Carlo di Amartuvshin Enkhbat: il baritono mongolo possiede infatti doti interpretative innate, spontanea ed aristocratica linea di canto, impasto di voce imponente ma anche un timbro vellutato, ed un fraseggio di rara eleganza. Sono loro due i veri mattatori della serata.
Un cast di livello
Roberto De Candia è un Melitone veramente eccezionale, sciolto ed arguto, ben cantato e parecchio simpatico; Annalisa Stroppa consegna una Preziosilla vigorosa, brillante, spigliata; benché abbastanza giovane, Mirko Mimica tratteggia un Padre Guardiano nobile, mistico ed autorevolissimo.
Per finire, nelle parti di contorno figuravano il massiccio Calatrava di Marco Spotti, l'arguto Trabuco di Andrea Giovannini, il buon chirurgo di Andrea Pellegrini. E poi Jacobo Ochoa (un alcade) e Natalia Gavrilan (Curra).