“La gatta sul tetto che scotta” è un dramma teatrale del 1954, scritto dal drammaturgo statunitense Tennessee Williams, con cui vinse il secondo Premio Pulitze, dopo quello ottenuto nel 1948 per “Un tram che si chiama Desiderio”.
Opera complessa, impegnativa e profonda, che indaga l’infelicità di una coppia e le dinamiche relazionali di una famiglia dominate dall’ipocrisia, tema principale del testo di Williams. L’ipocrisia, infatti, attraversa tutto il dramma, ne è il filo conduttore.
Una pièce difficile e impegnata per il debutto teatrale assoluto di Vittoria Puccini, diretta da Arturo Cirillo e affiancata da Vinicio Marchioni.
Nella messa in scena Cirillo sceglie di restare abbastanza fedele al testo di Williams e si concentra sull’universalità delle tematiche toccate dal drammaturgo americano: l’ipocrisia, la finzione e la repressione costante di pulsioni e sentimenti in nome di un falso perbenismo, il rapporto con la classe sociale e con i suoi schemi e le sue rigide regole, il confronto con la morte e il nichilismo.
Al centro del dramma c’è la famiglia, il nucleo fondamentale da cui tutto ha origine che si mostra apparentemente felice e sereno, ma in realtà, in esso convergono dinamiche e tensioni che ne rivelano in maniera evidente la disfunzionalità e smascherano l’ipocrisia celata dietro la facciata del “sogno americano”. D’altra parte come scriveva Lev Tolstoj: “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”. Nel dramma di Williams tutto è finzione; i rapporti tra i famigliari sono dominati dalla non naturalezza, non spontaneità, sono sempre mossi da secondi fini; tutti i personaggi mentono, fingere e dire bugie è per loro naturale, è il loro modo di affrontare la vita: rifiutare la realtà, non accettarla, preferendo continuare a vivere una vita fatta di finzione, apparenze e di falsa serenità, ovvero una vita di bugie - che in realtà celano verità terribili ma ineluttabili.
Nonostante il coraggio, l’audacia e l’impegno dimostrati nell’affrontare un testo come quello di Williams, lo spettacolo non convince, manca di energia e di tensione drammatica. La regia di Cirillo è sottotono, la sua innovazione si limita ad un giocattolo telecomandato, inquietante e tenero al tempo stesso, che attraversa la scena all’apertura del sipario e ad un muro a scorrimento che si apre e si chiude, su un verde e rigoglioso giardino, unica apertura, unico momento in cui si rompe la rigidità dell’ambientazione algida e claustrofobica.
Vittoria Puccini, nonostante il notevole coraggio dimostrato nel mettersi in gioco misurandosi con un personaggio così impegnativo e complesso come quello di Maggie la gatta non convince, la sua recitazione è piatta, priva di sentimento e di sfumature emotive, la voce spesso è calante – magari a causa dell’emozione, in scena è rigida e poco comunicativa. Purtroppo l’impegno e la serietà con cui ha affrontato il ruolo affidatole e con cui ha seguito le indicazioni registiche non sono stati insufficienti, i suoi limiti recitativi, in parte dovuti all’inesperienza, sono risultati evidenti e chi ne ha fatto le spese è il personaggio di Meggie, che nelle mani della Puccini è solo l’ombra di se stesso. Il teatro richiede studio, dedizione, disciplina e impegno, non ci si può improvvisare attori, perché il confronto col pubblico è impietoso e implacabile.
Inaspettatamente anche Vinicio Marchioni non convince, niente a che vedere con la sua intensa e acuta interpretazione di Stanley Kowalski nella versione di “Un tram che si chiama desiderio” di Antonio Latella.
In questo lavoro Marchioni resta impostato dall’inizio alla fine dello spettacolo dietro una voce forte e chiara, rigido e ingessato come la gamba rotta di Brick, il suo personaggio. Nonostante il suo sia un uomo complesso, spezzato, tormentato, ricco di sfumature e contraddizioni, la sua interpretazione non riesce a restituire in maniera efficace tutti questi aspetti. Un limite in questa sua interpretazione è il suo estremo controllo, infatti nonostante interpreti un ubriaco, non lo è mai troppo, è sempre trattenuto, non riesce a lasciarsi andare, non riuscendo a toccare corde recitative più sentite e sofferte. Si muove su registri recitativi fin troppo impostati e frenati, che non si addicono al suo personaggio.
Nota di merito invece per Paolo Musio e Franca Penone, rispettivamente interpreti del padre e della madre d Brick, che con la loro entrata in scena alzano nettamente il livello della recitazione, regalando un’interpretazione intensa e di forte impatto emotivo. Gli altri interpreti (Clio Cipolletta, Francesco Petruzzelli e Salvatore Caruso) fanno semplicemente il proprio mestiere d’attori, la loro interpretazione è misurata e senza sbavature.
Lo spettacolo di Cirillo è uno spettacolo di pura forma, ma che vacilla nel contenuto, vale a dire che c’è una cura estrema del particolare, dall’impianto scenografico ai costumi - la scenografia di Dario Gessati è infatti efficace e di gusto, i costumi di Gianluca Falaschi, pur ispirandosi agli anni ’50, non sono mai eccessivi, ma sempre discreti - ma manca la tensione emotiva, il pathos. Lo spettacolo sembra quasi evocare le atmosfere dei quadri di Hopper, surreali ed eterei, quasi distanti, in netto contrasto con il testo vibrante e intenso.