Lirica
LA GAZZA LADRA

NEI SOGNI DI UNA BAMBINA

NEI SOGNI DI UNA BAMBINA

Ottimo che la fondazione Arena di Verona riproponga uno degli spettacoli più belli degli ultimi anni, quella Gazza ladra di Damiano Michieletto premiata con l’Abbiati, che, da Pesaro, ha poi girato altri teatri italiani senza mai stancare il pubblico, anzi rinnovando ogni volta la meraviglia della prima volta. Doppio il merito se si considera che l’unico precedente dell’opera a Verona risale al 1824.
Durante la celeberrima ouverture sul palco solo un lettuccio con una bambina che non riesce ad addormentarsi; insonne, nervosa, si alza e gioca a comporre una struttura triangolare inserendo dei cilindretti negli appositi buchi sul coperchio di una valigetta. Nel sonno quella struttura di tubi, enormi questa volta, cala dall’alto e tutto lo spettacolo è il materializzarsi dei sogni (e degli incubi) della bambina, proiezioni dei suoi desideri e delle sue paure. In primis volare; poi fare i dispetti, rubare le posate o il cappello di Pippo. Nel finale, rivelatore, la bambina ritrova quel cappello sul letto una volta sveglia. Così lo spettacolo si può chiudere con l’ultima riga di “Olive comprese” di Andrea Vitali: “E se non fossero tutte ubbie?”
Intuizione davvero geniale questa di Michieletto: come sarebbe altrimenti possibile condannare a morte Ninetta per “sì piccola cosa”, cioè per il furto di una posata, se ciò non fosse soltanto l’incubo di una bambina? Insomma un sogno o un gioco, ma con la leggerezza e il brio ironico tipici rossiniani.

La scena di Paolo Fantin è astratta, giocata su tubi-pistoni cilindrici che calano dall’alto creando una “foresta” triangolare, i quali, nel finale del primo atto, si piegano in avanti assumendo la posizione orizzontale e divenendo piuttosto torce che illuminano, proiettando fasci luminosi; invece nel terzo sono ammucchiati sul palco, che si allaga per rendere la prigione di Ninetta. L’acqua, assecondando la narrazione, via via defluisce: in verità qui ci è parso che l’acqua restasse fino alla fine come a Pesaro, mentre a Bologna defluisce e a Reggio era assente del tutto (ma dalla platea del Filarmonico l’acqua è invisibile, intuibile solo dai riflessi sul soffitto della sala e dagli schizzi provocati dai cantanti camminando). I costumi di Carla Teti sono colorati e fantasiosi come in una favola. Fondamentali per la riuscita dello spettacolo le luci di Paolo Mazzon in colori accesi.

Giovanni Battista Rigon dirige con tempi poco frizzanti e una certa uniformità di suoni. Il cast si è rivelato un poco impacciato nella recitazione, soprattutto durante i recitativi: come se fosse stata necessaria qualche ulteriore prova con il regista (discorso che non vale per l’ottima, stupefacente acrobata che interpreta la gazza bambina). Majella Cullagh è Ninetta, bella come la bambina sogna di diventare; la voce, poco luminosa, svela qualche asprezza e il timbro non è particolarmente seducente (la lettura della lettera la mette alle corde per la difficoltà di pronuncia). Mario Zeffiri è un Giannetto dall’acuto forzato. Poco in risalto il Fabrizio di Omar Montanari con lo sguardo simpatico e i baffetti spiritosi, vicino al quale Giovanna Lanza dona scurezza a Lucia. Su tutti spiccavano i due bassi, Roberto Tagliavini (Fernando) e Mirco Palazzi (Gottardo): Tagliavini, in divisa militare, ha voce ben legata e una pronuncia tornita del verso; Palazzi, mingherlino, ha voce tonante e suggestiva nelle nuance cariche di espressività a dare spessore al podestà in cappottone di pelle e lunga treccia. Meno centrati i ruoli secondari.

Il pubblico, non particolarmente numeroso, ha molto apprezzato lo spettacolo e, nonostante qualche defezione, resistito fino alla fine, applaudendo generosamente.

Visto il
al Filarmonico di Verona (VR)