Amilcare Ponchielli insegnò composizione al conservatorio di Milano, dove ebbe tra gli allievi anche Puccini e Mascagni. La sua produzione si pone in un momento difficile per il melodramma italiano, nel clima mutato che segue la fine del Risorgimento, pervaso dal crollo delle aspettative risorgimentali che in Lombardia si congiungono alla Scapigliatura. Verdi ricerca nuove vie, ma i suoi epigoni si rifanno ancora ai suoi maggiori successi; tra questi si inseriscono in un posto di rilievo Ponchielli e la sua Gioconda, basata su libretto di Arrigo Boito (scritto sotto lo pseudonimo di Tobia Gorrio, anagramma del vero nome) e con i caratteri del grand-opéra, ballo compreso.
La Gioconda mancava a Palermo da oltre quarant'anni (gennaio 1970, protagonista Leyla Gencer) e torna in una edizione con tutti (o quasi) debuttanti: una specie di “ballo dei debuttanti” che ha convinto.
Il regista Jean-Louis Grinda ha creato uno spettacolo nel solco del repertorio, che rispetta tutte le convenzioni, aderendo perfettamente al testo e ai suoi dettagli: dal rosario in mano alla Cieca (e poi a Laura) alla rete dei pescatori, dai remi dei vogatori ai vari pugnali e così via, lasciando una incongruenza, l'arrivo di Gioconda sulla nave di Enzo come se ella camminasse sulle acque (così anche il coro), mentre Laura era stata poco prima accompagnata a bordo con una barchetta. Le masse sono mantenute statiche e piuttosto schierate per tutta l'opera.
La scena di Eric Chevalier è ridotta al minimo, un telo di fondo dipinto che evoca luoghi veneziani (piazza San Marco e la Giudecca) e una scala ispirata a quella del Bovolo. Invece fuori contesto il fondale con la riproduzione del soffitto della camera degli sposi di Mantegna, che è nel palazzo ducale di Mantova. Nel primo atto lo spazio scenico da subito è occupato da maschere, i marinai portano lunghi e colorati remi per la regata, la costruzione in mattoni e cornici di pietra bianca d'Istria è a destra. Una prua di barca è nel secondo atto (invero pare una biga quando si muove da una parte all'altra). Nel terzo atto la scala del Bovolo è a sinistra e connota l'interno di palazzo Badoero-Adorno. Per introdurre la Danza delle ore, Alvise fa un gesto ampio con la mano e le luci (di Jacques Chatelet) consentono di vedere oltre il velatino di fondo un tableaux vivent di ballerini vestiti come si può immaginare nella mitologia greca, figure che poi si animano per la danza, mentre tre restano immobili in alto sulle nuvole, ognuna con un'arma (falce, lancia, tridente). Nel quarto atto una torre a base cilindrica dà l'idea dell'interno di casa di Gioconda, ove si compie il finale. Molta nebbia sempre accompagna il tutto. Di impronta seicentesca i costumi di Jean-Pierre Capeyron, particolarmente ricchi per Gioconda e il doge veneziano che compare in due momenti nel terzo atto.
In Gioconda c'è sempre attesa per le danze: la Furlana del primo atto diventa una pantomima da commedia dell'arte, improvvisata da artisti girovaghi. La Danza delle Ore, trasferita sull'Olimpo, non ha forza comunicativa né attrattiva, nelle spente coreografie di impostazione classica di Marc Ribaud eseguite dal corpo di ballo del teatro.
Debuttante il direttore, Srboljub Dinic: gesto preciso, tempi esatti, suono musicale nei preludi, nelle arie e negli assieme, un suono morbido e di atmosfera, sfumato, che riesce a cogliere quegli impasti strumentali in cui Ponchielli ha dato il meglio. Il direttore impone alla partitura, bene eseguita dall'orchestra del Massimo, un piglio drammatico efficace, ma anche il necessario lirismo che i momenti intimi richiedono.
I cantanti, per la maggior parte debuttanti nei ruoli e vocalmente convincenti, non supportati da una regia forte se la cavano bene, rimanendo però nel convenzionale quanto a movimenti e gestualità.
Debuttante di lusso nel ruolo del titolo, Daniela Dessì sfoggia una forma fisica sorprendente, inguainata nei corpetti azzurri e rossi. L'emissione è robusta e duttile al tempo stesso; la voce è molto carismatica, quello che si richiede a Gioconda: sontuosa ed espressiva, perfetta in ogni registro (in particolare nel centrale, che rende il personaggio incisivo quanto a temperamento), musicale nel tornire il verso e nel legato; particolarmente efficace nelle mezzevoci in acuto del quarto atto (“E un dì leggiadre volavan l'ore”), atto tutto cantato con notevole bravura, rendendo un personaggio complessivamente incline al ripiegamento interiore.
Marianne Cornetti è Laura Adorno, impacciata nell'abito ma sicura e sontuosa nella voce: gli acuti nitidissimi, la dizione scolpita, bravissima nel duetto con Gioconda. Alexander Vinogradov è Alvise Badoero, voce piccola ma ben timbrata, poco autorevole nell'aspetto giovane e imberbe. Elisabetta Fiorillo è una Cieca molto brava sia vocalmente che attorialmente: la splendida aria “Voce di donna o d'angelo” è cantata con voce ampia, morbida e chiaroscurata. Francesco Grollo ha, insieme ad Aquiles Machado (e per una recita Ernesto Grisales), raccolto il testimone di Salvatore Licitra, che ha lasciato non avendo accettato la riduzione del cachet chiesta dal teatro a causa dei tagli ai finanziamenti imposti dal governo Berlusconi; Grollo ha voce di bel colore che si assottiglia in alto e fatica negli acuti di “Cielo e mar”, ma il tenore è riuscito a gestire la difficile parte. Alberto Mastromarino è un malefico Barnaba, cattivissimo. Con loro Angelo Nardinocchi (Zuane), Gianfranco Giordano (un cantore e Barnabotto), SaverioBambi (Isepo e una voce) e Gianfranco Giordano (un pilota e una voce).
Coro e coro di voci bianche del teatro sono stati ben preparati rispettivamente da Andrea Faidutti e Salvatore Punturo.
Molto pubblico, generoso negli applausi sia durante la recita che alla fine. Suggestiva la foto del manifesto, con una figura femminile volteggiante sott'acqua.