Opera, La Gioconda di Ponchielli, come s'usa dire "da Arena", nel cui spazio è apparsa dieci volte dal 1925 al 2005. Contribuendo nel 1947 al lancio della carriera di Maria Callas.
Mai però nel chiuso del vicino Teatro Filarmonico, che ora l'accoglie con un'inedita produzione interamente ideata da Filippo Tonon – genius loci, vent'anni in Arena sino a diventare capo ufficio regia – e coprodotta con la slovena Opera di Maribor (dove è già andata in scena alla fine di settembre), il Bellini di Catania dove è prevista per dicembre 2024, ed il circuito di OperaLombardia, dove le maestranze veronesi la porteranno in tournée nel prossimo novembre a Cremona, Brescia, Como e Pavia.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Il direttore giusto per un'opera veneziana
Opera, si sa, dalla complessa partitura, ed appena ad un passo dal kitsch. Nondimeno amatissima dai frequentatori dei teatri, da sempre stregati da una macchina teatrale spettacolare e coinvolgente, con personaggi vigorosi e musiche intriganti. Le cui declinanti fortune, peraltro, sembrano aver ripreso quota in questi ultimi decenni, a giudicare dalle crescenti presenze nei cartelloni lirici.
Alle prese con questo grand-opéra in salsa lombarda ma ambientato in Laguna, un direttore veneziano doc, Francesco Omassini. Equilibrato concertatore pronto ad esaltarne tutta la teatralità, tutta la potenzialità drammatica, che procede con accurato calcolo degli ingredienti: appoggio pieno ai cantanti, dettagli strumentali rifiniti, tempi e dinamiche intelligenti, libertà di fraseggio ed ampio respiro musicale. Infine, evocatore di sonorità intense e lussureggianti. Senza mai strafare, però.
Voci interessanti. Ma non tutte.
Peccato che delle tre voci femminili, due non diano grandi soddisfazioni. Il giovane soprano cubano-americano Monica Conesa sembra una mal riuscita copia della Callas, ineguagliata Gioconda. Ha una forte incisività attoriale, ma la voce non è particolarmente morbida, né attraente nel timbro; l'emissione, quando gravita nel registro superiore, abbastanza espansivo, può andare; ma nel registro grave la voce esce ingolata, con sgradevoli note di petto. Nondimeno, il suo «Suicidio!» qualche emozione, almeno per il forte temperamento, ce la sa donare.
E' un discorso che in qualche modo si ripete per il mezzosoprano polacco Agnieszka Rehlis, Laura Adorno. Credibile in scena, ma dalla linea di canto impersonale e poco espressiva, benché senza mende tecniche. Le supera entrambe la terza donna - la Cieca – messa nelle mani di un contralto d'eccezione, dalla voce piacevolmente scura e densa: Agostina Smimmero. Qui, il personaggio si manifesta al completo.
Un vilain a tutto tondo
A ben guardare, il vero protagonista dell'opera è però Barnaba: tutto si muove, tutto accade secondo il suo volere. Sua colpa è anche la tragica fine di Gioconda. Rappresentazione carnale del Male, non è peregrino pensare che qualcosa d'esso – tramite la penna di Boito - sia trasfigurato nello Jago verdiano. Un imponente Angelo Veccia ne rende benissimo il sinistro e distruttivo profilo con fiati generosi, emissione agile e ben timbrata, fraseggio eloquente, acuti ben proiettati.
Il suo rivale, Enzo Grimaldo, è appannaggio di una voce calda, luminosa e suadente, ben guidata nel fraseggio e nel gradiente dei colori, ed è quella di Angelo Villari. Dal canto suo il bravissimo Simon Lim raffigura un fosco, granitico Alvise, senza eccedere in inflessioni cupe. Nel vasto stuolo di comprimari, spicca lo Zuàne di Alessandro Abis. Impeccabile la prestazione del duttile Coro scaligero, curato da Ulisse Trabacchin.
L'esperienza vale, e si vede
Filippo Tonon si è preso carico di tutto: regia, scene e costumi; quest'ultimi con la collaborazione di Carla Galleri. Conosce a fondo il suo mestiere, e monta uno spettacolo di taglio nettamente tradizionale, che nell'insieme risulta gradevole e persuasivo; assai scorrevole, vivido e scenografico, curato sin nei minimi particolari. Uno spettacolo ben coordinato anche nel dinamico uso delle masse (coro, ballerini, figuranti), e nell'attenzione estrema alla recitazione dei singoli.
Raffigura in scena una Venezia decadente, dalle mura in rovina, dove par d'annusare un'aria salmastra e putrida; ma trasporta l'opera ai tempi in cui vide la luce, quasi a fine '800, epoca individuabile grazie all'accurato, quasi calligrafico disegno degli indumenti. Le coreografie, inserite nei punti giusti – La danza delle Ore affidata a sole tre ballerine, dalle movenze in bilico tra gestualità classica e moderna - le dobbiamo a Valerio Longo; l'acuto uso delle luci a Fiammetta Baldisserri.