“La grande magia” è un testo poco rappresentato di Eduardo De Filippo, portato in scena soltanto due volte: la prima dallo stesso autore nel 1948 e la seconda da Giorgio Strehler al Piccolo teatro di Milano alla metà degli anni Ottanta. Scritta alla fine della seconda guerra mondiale, la commedia rientra nel progetto che Luca De Filippo sta portando avanti da qualche anno, proporre i lavori scritti dal padre tra il 1945 e il 1945.
Al centro della storia il mago Otto Marvuglia, illusionista e prestidigitatore, solito esibirsi all'hotel Metropol, dove accetta di far sparire per breve tempo con il suo amante la signora Marta, moglie dell'ingegner Calogero Di Spelta alla presenza di complici del mago, suoi amici e familiari prestati a essere claque ma soprattutto a confermare la veridicità dei poteri del mago e a studiare i clienti dell'albergo al fine di circuirli.
Il primo atto si svolge sulla terrazza del Metropol e ha al centro la sparizione della donna. Il secondo atto è ambientato in casa del mago e protagoniste diventano le ristrettezze economiche da cui ci si salva con abilità e ordinaria “magia”. Il terzo atto ha luogo nella casa Di Spelta dove Calogero da quattro anni vive imprigionato in un vortice di finzione e illusione ideato e condotto abilmente da Marvuglia. Qui il testo subisce un repentino cambiamento: da un inizio tipico dell'autore napoletano con un alternarsi di situazioni comiche ad altre drammatiche (la morte della giovane Amelia Recchia, figlia di uno dei complici del mago), nel finale la virata repentina è verso un ragionamento pirandelliano tra il marito che vive la finzione come fosse realtà e la moglie che torna provocando una sua reazione inaspettata. Lo stesso pubblico resta sorpreso dal tono della commedia e dal senso del finale, impostato sull'impossibilità di cambiamento nella società in mano a pochi abili bugiardi capaci di proporre un autoinganno collettivo. Eduardo sempre e comunque svela i meccanismi del comportamento e analizza le sfumature dell'animo. Spesso ritorna nel testo la parola “giuoco”, quel gioco che è la vita, quel gioco che è il rapporto umano, a volte inesorabile e causa di sofferenze quando ci si è illusi che la realtà sia diversa e non si riesce ad accettare il presente.
La scenografia di Raimonda Gaetani completa il senso della regia di Luca De Filippo, mostrando chiaramente un teatro nel teatro e con questo spingendo sulla metateatralità dell'operazione. Un custode dà luce all'inizio e la toglie alla fine e la pedana dove si muovono gli attori è contenuta dentro una grande scatola nera con le finestre in alto, irraggiungibili e chiuse da inferriate. I costumi, della stessa Gaetani, situano l'azione nel tempo della scrittura della commedia. Perfette le luci di Stefano Stacchini che creano atmosfere in penombra assai suggestive.
Luca De Filippo propone un mago abile con le parole e suadente nel comportamento ma fondamentalmente un “povero Cristo” che fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, accompagnato dalla moglie Zaira (Carolina Rosi) che lo vessa ma improvvisamente è capace di gesti di generosità, come l'acquisto dei fiori per Amelia quando non hanno neppure i soldi per la spesa. Bravissimo Massimo De Matteo nel ruolo di Calogero Di Spelta sia nei momenti brillanti che nella resa dei conti finale con il lungo monologo in apertura del terzo atto. Nel numeroso cast si sono segnalati i due complici del mago, Nicola Di Pinto (Arturo Recchia) e Gianni Cannavacciuolo (Gervasio Recchia e la mamma di Calogero), insieme ai due giovani Giulia Pica (Amelia Recchia dalla risata contagiosa) e Daniele Marino (il cameriere del Metropol e Gregorio Di Spelta). Tutti bravi i comprimari con qualche eccesso caricaturale che non pregiudica il buon risultato collettivo.
Pubblico sorpreso da una commedia non facile e con agganci pirandelliani che consentono di leggere l'oggi da un inatteso punto di vista: la grande magia che obnubila la realtà, l'illusione collettiva che consente di vivere il presente a proprio piacimento: “il privilegio dell'uomo è poter farsi illusioni”.