Prosa
LA LAMPADINA GALLEGGIANTE

Ma Woody Allen non deve far ridere per forza...

Ma Woody Allen non deve far ridere per forza...

Si fatica a trovare ne La lampadina galleggiate il graffiante humour Yiddish cui Woody Alenn ci ha abituati, anzi come commedia comica la pièce strappa sì e no due risate.
L'errore non è del testo, però, bensì nel punto di vista di chi in un lavoro di Woody Allen cerca per forza la battuta, l'ironia, la risata.

In questa sua pièce, scritta nel 1981,  Woody Allen racconta con dolente realismo la storia semplice dei Pollock, una famiglia povera nella New York dell'immediato secondo dopoguerra, raccontando del limite sociale, più che umano, che la costringe in un angusto orizzonte di possibilità, poco in sintonia con il sogno americano del quale ogni suo componente è vittima. Vittima perchè le potenzialità di ogni personaggio sono frustrate prima ancora che dai limiti personali, dagli effetti devastanti dei rapporti familiari, dalla miseria che conduce prima agli strozzini e poi alla malavita, dalla paura della maturità che fa sognare al  marito di scappare con una ragazza molto più giovane di lui, alla moglie di trovare in un altro uomo il contatto umano, prima ancora che sessuale, che col marito non ha più da anni, mentre i figli reagiscono rinchiudendosi nella compulsiva mania dei giochi di prestigio o nel vandalismo piromane.

Allen ci racconta una storia di disillusione attento a non cadere nel patetico o a giudicare i propri personaggi grazie a una sottile ma continua ironia che gli impedisce di comporre un quadretto edificante o, peggio, moralistico. Ci riesce perchè rimane sempre saldamente agganciato al realismo della notazione, della psicologia dei personaggi, e alla precisione con cui riporta sogni artistici e contesti storici (l'immaginario collettivo americano degli anni 40).
Quelli che in Allen sono personaggi veri nelle mani di Pugliese  diventano dei guitti un po' patetici più che vittime delle cattive  opportunità che la società offre loro colpevoli di velleitarismo  verghianamente rovinoso.

Questa differenza di prospettiva capovolge il senso profondo del dramma. Mentre Woody Allen racconta di personaggi dalla cui storia minima e semplice, concreta, tangibile, fatta di fallimenti, di speranze disilluse o di solitudini il cui dramma emerge non dallo scollamento con la realtà ma proprio dalla loro dolorosa e profonda aderenza ad essa, Pugliese fraintende e veste i personaggi con un'ombra di grottesco che in realtà è loro estranea. Nel fare questo è costretto a intervenire sul testo non solo aggiungendo, reiterando o sottolineando dialoghi e situazioni per trasformare in battute comiche le notazioni sottilmente ironiche dell'originale ma per cambiare atmosfera e situazione ai fatti messi in scena.

Due esempi fra i tanti che si possono fare.

Alla fine del secondo atto, Enid, la madre apprensiva di Paul, il figlio maggiore con il pallino dei giochi di prestidigitazione, in attesa dell'incontro con un impresario che potrebbe ingaggiarlo, commenta uno dei trucchi del figlio dicendo che <i>quasi non si vede che le carte sono appiccicate</i>. Nel testo niente ci fa intendere che Paul non sia bravo. Se davanti all'impresario sarà maldestro non è per imperizia ma per nervosismo. Quando è da solo i trucchi gli riescono invece alla perfezione. Pugliese dopo la battuta di Endi fa scivolare le carte di mano a Paul, mostrando il trucco e fa dire a Enid, in chiusura di sipario, <i>beh quasi</i> una battuta non presente nel testo originale (almeno nella versione italiana pubblicata da Bompiani) cercando un facile effetto comico estraneo allo spirito del testo originale.

Così come di cattivo gusto è il far entrare in scena Jerry, l'impresario, con in testa la Kippah, il copricapo usato correntemente dagli Ebrei osservanti all'interno dei luoghi di culto, anche se i più religiosi la indossano anche durante la vita quotidiana, dettaglio che serve per connotarlo immediatamente come ebreo e non ebreo osservante.

Pugliese interviene anche nei continui riferimenti con cui Allen, da grande intenditore  della cultura popolare dello show bussines americana, strizza l'occhio  al pubblico citando determinati artisti e non altri, come quelli  sconosciuti di Jerry che millantava conoscenze che in realtà non  ha, modificando nomi e canzoni e film per venire incontro alle scarse conoscenze dello show bussines statunitense del pubblico italiano, vanificando però il preciso contesto culturale  entro il quale Allen immerge i suoi personaggi e l'intera commedia (quanti avranno capito il soprannome - Shylock - dato da Enid allo strozzino che tempesta il marito di telefonate?).

Ancora, quando, nel pieno del secondo atto, Paul si esibisce per l'impresario, Allen fa mettere a Steven, il fratello minore di Paul, un disco preciso, indicato in didascalia come In a Persian Market, (t.l. In un mercato persiano), in riferimento all'iconografia del prestidigitatore orientaleggiante (Enid ha fatto indossare a Paul un turbante da mago). Una notazione ironica quella di Allen ma pienamente coerente con la situazione e i personaggi. Pugliese invece sceglie una musica oleografica, alla Charlie Chaplin a sottolinearne l'aspetto patetico.

Là dove Allen nota nel dato realistico e concreto della storia raccontata l'orizzonte angusto delle vite frustrate da un sogno americano che non ha mai raggiunto i fasti propagandati dall'immaginario collettivo nazionale, Pugliese vi vede una favola morale à la De Amicis ricercando una universalità dei personaggi nell'astrattezza di una messinscena che ride dei personaggi e non, come fa Allen, con loro.

Una astrattezza sostenuta anche dalle scene di Andrea Taddei che suggeriscono l'appartamento in cui si svolge la commedia  invece di mostrarlo per quel che davvero è: niente stanze, niente porte, solo una sorta di unico loft nel quale i vari ambienti prendono vita dal nulla, ai margini del quale avvengono le rare scene che, nei tre atti, si svolgono altrove con una eleganza registica che stride con la modestia che quell'appartamento dovrebbe restituire, una povertà fatta non di miseria  perchè, come Allen spiega in didascalia: <i> non è tanto  che l'appartamento sia sporco; semplicemente è stato troppo difficile  tenere il passo del suo decadimento</i>. 

Il punto di vista con cui Pugliese affronta la commedia, rispetto quello centrato e stereoscopico di Allen, se ci si perdona la metafora per intendere che dietro i personaggi  si staglia netto e preciso un intero universo sociale dalle precise coordinate, risulta dunque strabico (perchè vede solo la miseria dei personaggi e non della società in cui vivono) e stonato (perchè orchestra la recitazione cercando una comicità che non c'è) dando alla commedia l'impressione che non decolli.

Questo senza nulla togliere all'intensa Mariangela D’Abbraccio, subentrata a Giuliana De Sio in corso d'opera, che ci regala una energica e splendida Enid, e a tutti gli altri attori che incarnano al loro meglio i personaggi che interpretano (soprattutto Emanuele Sgroi  per la credibilità con cui rende il candore di un giovane aspirante artista col panico da pubblico e balbuziente così come lo ha inteso Pugliese).

 

Visto il 10-01-2012
al Garibaldi Comunale di Figline Valdarno (FI)