Un teatro con la T maiuscola

Un teatro con la T maiuscola

Il barone Edoardo Bassi dei Baroni Mesti, decaduto e senza un soldo, è riuscito a combinare il matrimonio di suo nipote Riccardo con Claretta, figlia di una benestante famiglia borghese, la madre della quale, Luisa, agogna il titolo nobiliare. Il barone pensa di sistemarsi a sua volta sposando Tiziana, la sorella di Luisa, che ha una dote milionaria. Il padre di Claretta acconsente alle nozze della cognata solo dopo che che Riccardo e Claretta avranno fatto un figlio. Riccardo però, giovane inesperto appena uscito dal collegio, per  rispettare le ultime volontà che la madre gli ha scritto in  una lettera poco prima di morire, tratta le donne con platonico rispetto e non consuma il matrimonio...

Andata in scena per la prima volta a Napoli al Teatro Sannazzaro il 4 gennaio 1933 La lettera di mammà è una farsa in 2 atti di Peppino De Filippo dove la comicità popolare di Scarpetta (la fame, che sottende tutto il testo) si combina con alcune notazioni di costume che Peppino fa sulla borghesia (che sembra dare maggiore importanza ai titoli nobiliari più che al benessere economico raggiunto) e su certe sue ipocrisie alludendo a comportamenti sessuali che vanno dall'adulterio (sempre sotteso e mai del tutto consumato tra una giovane donna sposata e uno dei commessi del negozio del padrone di casa) a certe ingenuità giovanili (Riccardo asessuato per amore filiale).


La farsa si distingue dalla commedia non certo per la qualità della scrittura quanto per l'incalzare incessante delle battute, dei colpi di scena, delle gag teatrali che devono colpire lo spettatore senza dargli nemmeno il tempo di prendere fiato tra una risata e l'altra. Esilaranti le battute del Barone che, nel fare il baciamano alla madre di Claretta, ne commenta deliziato il profumo di ragù, o i continui commenti alla bruttezza di Teresa presentati come dichiarazioni di amore e tributi alla sua bellezza. Divertenti anche le lezioni di signorilità che Luisa impartisce, invano, alla serva di casa che non sa introdurre gli ospiti con la pomposità adeguata al nuovo status sociale raggiunto (e annessi spassosi deliri sul diventare Imperatrice madre se il barone ripristina la corona nelle terre di Corinto resi con felicissima verve comica da Lelia Mangano De Filippo).


A distanza di quasi 80 anni la scrittura di De Filippo mantiene intatta  la capacità di far ridere risultando ancora credibile e godibilissima, approntando una comicità mai fine a se stessa, ma che sa indicare, pur se bonariamente, ipocrisie e difetti della classe borghese, quella su cui, negli anni trenta, non si dimentichi, il fascismo costruisce la sua retorica di rispettabilità.
Confrontando infatti le allusioni e i comportamenti dei personaggi con l'epoca in cui la farsa è stata scritta e messa in scena non può non sorprendere una certa libertà, per allora, nell'alludere al sesso come a un diritto coniugale della donna (Claretta che crede che Riccardo non consumi il matrimonio a causa delle sue origini non nobili) e a certa sprovvedutezza giovanile che De Filippo individua bene in una naivetè a cavallo tra la mancanza di esperienze di vita di chi è cresciuto in un collegio, lontano dalla famiglia (e dunque dalle donne) e l'amore filiale per la madre che sostituisce quello carnale, secondo una retorica molto in voga all'epoca.


Un personaggio quello di Riccardo, deformato ingiustamente, in altri allestimenti recenti di questa famoso testo, nella macchietta dell'uomo effeminato, come se la sua sprovvedutezza celasse un disinteresse per le donne sussunto direttamente nell'omosessualità, fraintendendo del tutto il personaggio pensato da De Filippo, e  compiendo una scelta banale, maschilista e omofobica.


Nell'allestimento attento e rispettoso di Fabio Gravina, Riccardo viene restituito alla sua originale matrice di giovane inesperto e naïf senza che questa sprovvedutezza venga letta in come mancanza di virilità.
Gravina si dimostra non solo un raffinato interprete (il suo Barone, dalla parlata instancabile, sa restituire con umanissima credibilità la disperazione della decaduta nobiltà di chi brama ai soldi per fame) ma anche regista attento a non sovrastare con la propria prova d'attore, davvero notevole, quella degli altri interpreti, dando a ognuno modo di esprimere. attraverso la peculiarità del proprio recitare, le caratteristiche dei personaggi pensati da De Filippo con una profusione di gag di felice invenzione che riescono a sorprendere e divertire pur rimanendo nell'ambito di un contesto noto.


Gli svenimenti di Teresa, ai quali i familiari sono abituati, mentre il Barone e Riccardo si spaventano, sono resi da Mara Liuzzi  con una dovizia di dettagli (la postura dal corpo rigido e degli arti tesi prima  e un risveglio tutto fatto di gridolini e oscillazioni del capo poi) irresistibilmente comici; la postura marziale imparata in collegio di Riccardo è resa da Giuseppe Cantore con una mobilità delle gambe che ricorda i passi del cavallo ammaestrato (e infatti il barone lo incita come fa un istruttore di animali al circo). Anche la gag della serva che non sa essere signorile è resa da Annamaria Giannone con intelligenza e gusto senza scadere mai nella ricerca dell'effetto comico di per sé, ma sempre avendo a mente il testo e l'atmosfera che il suo autore voleva evocare. Marcello Manganelli mostra doti di trasformista passando dal ruolo del commesso infojato della bella vicina sposata (l'espressivissima Monica Maiorino) a quello del cavaliere che ha combinato l'incontro tra il barone e la famiglia di Claretta, col solo ausilio fisico dei costumi (coloratissimi) e i mezzi espressivi del vero attore: la voce, la postura, il corpo.


Ognuno dà al personaggio che interpreta una credibilità. spesa sul proprio corpo di attore. senza mai usare il personaggio per mostrare la propria bravura o indulgere nella ricerca di un effetto comico facile.


Fabio Gravina ama il suo mestiere e lo sa fare bene offrendo al pubblico la possibilità di vedere un tipo di teatro oggi messo ingiustamente tra parentesi, almeno in una  città come Roma. Il pubblico apprezza affollando il teatro ogni sera. tanto che la compagnia  riesce a tenere in cartellone gli spettacoli per tempi sorprendentemente lunghi rispetto gli standard odierni e con "soli" quattro spettacoli Gravina riesce a tenere un'intera stagione. Segno evidente che il pubblico, scoperta la qualità del lavoro suo e degli attori (attrici) di cui si circonda, torna grato a vederlo (e rivederlo) all'opera.


Il teatro Prati, che ha aperto i battenti nel 1999 per sua volontà, ospita una interessante raccolta di cimeli, regalati da collezionisti e attori (Pupella Maggio) tra i quali figura proprio la trombetta usata da Peppino per questa commedia (donata da Lelia Mangano De Filippo l'ultima compagna di vita di Peppino tornata sulle scene nel 1999 proprio in questo teatro) che lo spettatore può ammirare in una teca tra il foyer e la sala. Così passato e presente si ricongiungono e l'opera di Gravina acquista anche quella funzione di memoria storica continuando con la tradizione del teatro napoletano, per la quale dobbiamo essergli grati. perchè compie un lavoro al quale dovrebbe pensare lo Stato che invece se ne infischia, lasciando il compito all'indefessa passione di qualche privato cittadino, cittadino con la C maiuscola, come direbbe Eduardo.