Sullo sfondo di un proscenio su più livelli, del tutto privo di arredi, soltanto il fitto orizzonte di spighe di grano, insieme al cielo che si tinge di tutti i colori del giorno, ci rimandano all'ambientazione agreste de 'La lupa' -riduzione teatrale dell'omonima novella verghiana-, quasi a sottolineare l'atemporalità della storia messa in scena.
Cosicché, l'originaria vicenda a forti tinte, ambientata dall'autore tra i poveri braccianti agricoli della Sicilia di fine Ottocento, assume, in questa particolare lettura del regista Guglielmo Ferro, i contorni dell'archetipo di tutte le triangolazioni amorose, in un contesto dominato da credenze ataviche, paura e ignoranza: un clima di angustia morale, prima che materiale, dove, chi non si adegua ai modi di vita stereotipati imposti dal borgo contadino, è colpito dallo stigma sociale, quindi emarginato.
Come la Gnà Pina, colei che, secondo il nomignolo spregiativo attribuitole in paese, è per tutti 'la lupa', qui nelle fattezze di un'accorata Lina Sastri. Perché si sa, 'nomen omen', e perfino le parole possono servire a distanziare ciò che si teme; così, attribuire un soprannome metaforico fortemente connotativo sulla base di tratti per convenzione attribuiti al mondo animale (lo stesso Verga è ricorso a questo espediente in 'Storia di una capinera'e 'Tigre reale'), rientra, in generale, in quella tradizione storico-culturale che colpevolizza l'influenza seduttiva delle donne, fornendone un ritratto dai contorni deformanti. Per cui costoro vengono descritte come esseri mostruosi, streghe, assatanate, vampiresche mangia-uomini (frequenti, nella rappresentazione, le battute in cui si rimprovera alla protagonista persino il potere incantatore dei suoi 'occhiacci').
Pregiudizi radicati resi più forti da una concezione magico-superstiziosa del reale (cui non si sottrae neppure la religione, in questo lavoro), qui ben rappresentati in scena dal coro indistinto di paesani giudicanti, in un intreccio che si risolve veloce in meno di un'ora: la 'lupa' della situazione, madre vedova ancora avvenente, s'innamora perdutamente di un giovane ragazzo, tale Nanni Lasca, che la rifiuta, chiedendone in moglie la figlia.
Ne deriva una liaison dai contorni potenzialmente esplosivi, esplorata in tutte le declinazioni del sentimento nelle frequenti dichiarazioni in cui la lupa mette a nudo il proprio animo, dimostrandosi per una volta fragile e vulnerabile, vittima di una passione bruciante. Dai continui duetti, anche a suon di stornello -con un sublime riadattamento dei versi verghiani, su musiche originali di Massimiliano Pace, arrangiate da Franco Battiato- emerge presto il profondo dislivello di valori all'interno della coppia, laddove il destinatario delle profferte amorose si presenta come un cinico calcolatore, incapace di emozioni sincere e pure crudele nella banalità con cui manifesta le proprie intenzioni alla spasimante: procurarsi -lui, povero in canna- una sistemazione economica attraverso una consistente dote matrimoniale. L'asimmetria del legame ricorderebbe quello mitologico tra Medea e Giasone, finanche nel difficile e possessivo rapporto con la prole: che la Gnà Pina non esita a sacrificare, costringendo controvoglia la figlia Mara ad un'unione di interesse con un uomo non desiderato, pur di ingraziarselo e soddisfarne le richieste. Ancora il mito -questa volta di Elettra- potrebbe spiegare la complessa relazione madre-figlia -due caratteri di segno opposto-, inizialmente separate dai pettegolezzi che provocano vergogna nella ragazza, quindi 'nemiche per la pelle' convergenti sulla medesima figura maschile.
Non sarebbe difficile -in questa rivisitazione in chiave 'esistenziale' del dramma verghiano- scomodare infinite letture psicanalitiche dell'impossibile ménage à trois, destinato a precipitare rapidamente in tragedia in un bel giorno di primavera. Ma, più di tutto, vale la pena ricordare la statura morale assunta nella rappresentazione, dall'unica trionfatrice, quella 'lupa' nodo irrisolto di contraddizioni, madre snaturata e tenera amante, vittima e carnefice al tempo stesso, colpevole soltanto di voler dare libero corso ai propri sentimenti, senza badare ai risvolti etici delle proprie azioni. Un carattere tormentato, simile a certe eroine romantiche, cui Lina Sastri conferisce degno spessore in un'interpretazione appassionata ma sobria, in chiave quasi intimista. Coronata, nel finale, dal meritato tributo del pubblico in sala.