La menzogna è uno spettacolo complesso, ermetico su certi punti, che parla per metafore. Difficile definirne la bellezza, ma è impossibile negare la capacità di Delbono di parlare di un argomento tanto difficile, come le morti sul lavoro, senza cadere nel patetismo.
Grosso sarebbe stato il rischio con un argomento tanto intriso di tragedia di entrare nel senso di pietà, nel buonismo imperante, nel ricordo angosciante di quel luogo, trascurandone forse il lato più essenziale: il cinismo che stava tutt'intorno. Delbono è irriverente, fastidioso, politicamente scorretto, ma ciò che è peggio è il suo essere assolutamente vero, smaliziato, autentico.
Pochi elementi in scena, ma essenziali: una ventina di armadietti di una ipotetica fabbrica, una scrivania e alcune impalcature in ferro. Un ambiente spoglio, che si trasforma a volere della messa in scena.
Delbono cita De Andrè, traveste i propri attori da conigliette di playboy, fa recitare pezzi di Romeo e Giulietta, mette down nudi e matti in frac in giro per la scena, fotografa ossessivamente il pubblico unendo ogni elemento con sapienza e dando ad ognuno un reale legame emotivo con la tragedia Thyssen Krupp.
Lo spettacolo inizia lento con l'arrivo degli operai nella fabbrica, nel silenzio più assoluto, nella continua e quasi programmatica ripetizione dei gesti. Automi che entrano ed escono dagli stessi spazi senza mai incontrarsi o scambiarsi una parola. Uomini che vestono "a festa" solo per il proprio funerale "accompagnati" al catafalco dal "Testamento di Tito" di De Andrè.
Perchè quando sono morti quei sette operai " non ho provato dolore. Quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore. Con un coltello piantato nel fianco gridai la mia pena e il suo nome: ma forse era stanco, forse troppo occupato davvero, lo nominai invano".
Quella fabbrica doveva essere chiusa e trasferita a Terni, ma in quel periodo la produzione a Torino aumentò notevolmente: le macchine erano usurate, non più a norma, ma agli operai era detto di mandare un fax alla direzione se pensavano ci fosse qualcosa che non funzionasse.
Eccola allora la Menzogna, celata dai sorrisi bianchi e splendenti dei bambini negli spot promozionali della Thyssen Krupp "i cui padri, grazie alla fabbrica per cui lavorano, daranno loro un futuro, sceglieranno per loro il futuro migliore, il progresso"; ma eccola di nuovo comparire dietro gli occhiali scuri, dei dirigenti ai funerali, dei falsi preti con le subrettine, dietro le maschere equine. Dentro quegli armadietti che custodiscono gli oggetti della vita oltre la fabbrica, ma che sono le stesse bare di quegli operai. Ma eccola anche nelle musiche tedesche degli anni Venti per ricordare le origini teutoniche della Thyssen.
In un continuo gioco di citazioni poetiche, con un ritmo via via più incalzante, lo spettatore non più che immedesimarsi nel pathos, nella cattività della fabbrica, che tramuta gli uomini in bestie le cui urla di dolore sono versi e grida di animali. Tutto fa spettacolo, tutto è uno scoop per i giornali, un'occasione per diventare famosi, nella morbosa necessità di fotografare ogni cosa. Danze inconsulte, sono i corpi agitati di uomini travolti dalle fiamme, delle notti insonni per la troppa stanchezza, dei tic nervosi dei gesti ripetuti.
"Cosa vogliono - ripete la voce di un operaio - ste puttane, i travestiti, i rom, questo schifo che mi circonda, sta vita di merda". L'intolleranza, verso quelli che ti rubano il lavoro, la casa lo spazio. Dopo ore di lavoro chiusi in una fabbrica esci e vedi un altro schifo.
Emblematica la citazione "Romeo o Romeo rinuncia al tuo nome. Che cos'è un nome? Quella che chiamiamo rosa, anche con un altro nome avrebbe lo stesso odore soave; così Romeo, se non si chiamasse più Romeo, conserverebbe quella preziosa perfezione che egli possiede anche senza quel nome". Quella fabbrica anche se cambiasse nome, sarebbe sempre la stessa fabbrica. Fusioni aziendali non cambiano la realtà, perchè quella è sempre la stessa. La Thyssen Krupp se non si fosse chiamata così sarebbe stata diversa?
Anche Delbono alla fine si spoglia e resta nudo in scena, da solo, in un terrificante e imbarazzante silenzio coperto solo dalle sue parole: "Scusate la menzogna che mi porto dentro, ma è così da quando ero bambino. Veniamo al mondo su questo teatro della follia". Lo spettacolo si conclude con la dichiarazione del regista che dedica l’opera al padre che era operaio.
Fonderie Limone, Moncalieri (TO) - 26 ottobre 2008
Visto il
al
Orfeo
di Taranto
(TA)