«Oh Romeo, Romeo perché sei tu Romeo!?
Solo il tuo nome è mio nemico: TU SEI TU.
Che vuol dire "Montecchi”?
Non è una mano, né un piede, né un braccio, né un viso, nulla di ciò che forma un corpo. Prendi un altro nome.
Che cos’è un nome? Quella che chiamiamo "Rosa" anche con un altro nome avrebbe il suo profumo. Rinuncia al tuo nome, Romeo, e per quel nome che non è parte di te, prendi me stessa».
Avete mai sentito questi versi recitati con rabbia, urlati con il dolore e con la forza che nasce dalla disperazione totale? Un urlo disarmante ed ininterrotto che strazia l’udito e penetra fin dentro l’anima. Se la risposta è no, non avete ancora assistito a La menzogna di Pippo Delbono. Dietro il significato delle parole che identificano il dramma d’amore più noto, c’è il dramma contemporaneo dei morti della Thyssen Krupp, lì dove oltre i 7 nomi, nomi qualunque inaspettatamente annunciati e divulgati dai telegiornali, si è trovato solo il corpo, logorato dall’incendio, di un caro. Un nostro caro? Non importa, la questione centrale non è provare dolore per un nome caro, ma provare pietà per quello stillicidio di morti bianche che poteva essere evitato.
«Non riesco a provare dolore per i tanti morti ma pietà…», inizia cosi lo spettacolo.
Umani–automi si muovono meccanicamente nello spazio della fabbrica, si accostano ad armadietti, si spogliano dei loro panni, s’infilano la tuta di lavoro con gesti routinari; silenziosi, uno dopo l’altro indifferenti entrano-escono-entrano-escono senza sosta. Un moto infinito. Gli attori in scena vestiti a lutto ripropongono con azioni a ritmo di musica, i meccanismi assurdi della produzione industriale, e guardando oltre: la stupidità umana.
Sopra a tutto: ferma impassibile la presenza del grande occhio, una figura che controlla senza sporcarsi le mani. Sotto: gli operai, ciascuno nel suo moto insensato, con la testa coperta, privati di una mente; o meglio bestie pronte ad obbedire come cani al padrone. Abbaiano. Anche chi comanda latra. Tutti abbaiano furiosamente all'ordine, finché non trovano il loro posto all’interno di armadietti-bare. Un gatto-Budda nudo ed imperlato resta immobile in un angolo ad osservare.
Pippo Delbono, sempre più irriverente, fotografa gli spettatori seduti placidamente sulle loro poltrone, impressiona sguardi impressionati ma impassibili, immortala le nostre reazioni senza azioni alle scene di violenza quotidiane...che d’altronde siamo abituati a vedere dai media. E fotografa anche la realtà e la tragedia che si svolge, perché tanto tutto fa spettacolo.
La sua voce profonda ed irata spezza il silenzio.
E c’è l’incendio. I personaggi in scena soffrono e muoiono nudi a terra.
La realtà senza filtri, senza veli è disgustosa, rivoltante, ma è verità. Verità pura non è menzogna. E solo l’accettazione permetterebbe di affrontarla con consapevolezza.
Alcuni spettatori si alzano dalle loro poltrone e lasciano il teatro preferendo non guardare, chiudono gli occhi; così come facciamo ogni giorno davanti a ciò che accade e non ci piace. Voltiamo le spalle. Cambiamo canale. La performance ha il suo effetto.
Non è un teatro didascalico quello della compagnia di Delbono ma è sicuramente un teatro che comunica sensazioni forti e direttamente allo stomaco, attraverso un linguaggio che non può non giungere al suo obiettivo.
Pippo Delbono parla alla gente con metafore e simbologie, giochi di rifrazione, ombre e luci, musiche e suoni, forme umane, riduce tutto all’essenza, svela dai veli. E resta, alla fine, al centro del palco denudato completamente. Scusandosi per le menzogne. Contro l’ipocrisia, contro la violenza, contro la chiesa, contro i meccanismi routinari, contro i regimi, contro il male diffuso di una vita passivamente accettata, contro la stupidità, contro la menzogna di una vita.
Rischioso. Ma tremendamente sincero.
Teatro Argentina - Roma, marzo 2009
Visto il
al
Orfeo
di Taranto
(TA)