Il Teatro Alcalino è una piccola formazione al suo debutto, due giovani appassionati provano e si mettono alla prova scomodando uno degli intrugli letterari più complessi del novecento, uno di quei pozzi oscuri insomma dove l’esistenza si traduce quasi sempre in smarrimento. La Metamorfosi di Franz Kafka è un segno mai tramontato, Gregor Samsa è il paradigma di una vertigine esistenziale sempre in bilico tra sensi di colpa e conflitti inestricabili.
Terreno infido dunque quello del racconto kafkiano, scivoloso come la bava che Stefano Pagin ha strisciato sulle suppellettili della stanza del Gregor/insetto, sul quale però vanno allo scontro coraggiosi e vitali Davide Ciani e Bojana Lazarevic, muovendosi in un ring che la regia ha disegnato come il luogo dove si sia appena consumato un delitto, con linee bianche perfettamente simmetriche che delimitano lo spazio alla maniera di un Dogville alla von Trier.
Uno spettacolo appassionato e coraggioso con il sostegno ancor più coraggioso del Teatro Ca’ Foscari di Venezia che ha dato spazio e residenza per le prove e la messa in scena, testimoniando ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, quanto questa istituzione cittadina dello spettacolo e della ricerca abbia a cuore la formazione dei giovani.
L’intervento drammaturgico sul testo originale carica sui due fratelli, Greta e Gregor, il peso dell’intera vicenda, i due giocano tra loro un gioco crudele e perverso che si rafforza però di una complicità infantile solida e mai tenera. Tutti gli altri personaggi sono spariti, la madre e il padre, ma anche le donne delle pulizie che si avvicendano nella casa, parlano per bocca della sorella generando uno stupefacente effetto straniante che fa di Greta/Lazarevic il corifeo e di Gregor/Ciani un eroe solitariamente tragico.
Tuttavia, lo scontro tra Greta e Gregor, mentre da un lato amplifica l’ossessione del marciume familiare, così determinante nell’ottica kafkiana, e sostiene il ritmo dello spettacolo che in alcuni momenti fatica a decollare, dall’altro costringe a cercare soluzioni che eccedono per sovrabbondanza di segni, dovendo sopperire all’assenza di relazioni che i personaggi assenti avrebbero garantito.
Mi riferisco per esempio al farraginoso parlarsi dei due protagonisti attraverso i comodini e i loro cassetti, alla lunga veste da pallida sposa che Greta sbandiera davanti e dietro di sé come simulacro della madre, a Gregor femminizzato con la stessa vestaglia della sorella o infine al quasi spasmodico utilizzo che quest’ultimo fa del suo piumone, quasi a confermare costantemente lo spettatore che ogni gesto è significante e che nulla ha il solo significato che vediamo. Questa sovrabbondanza, che in un collettivo di attori più ampio avrebbe trovato di certo maggiore rarefazione, finisce per condurre ciò che vorrebbe essere surreale nel campo di un artificio da esercizio accademico.
Travolgente, invece, lo sforzo di Davide Ciani alla ricerca dell’insetto che è in lui, riesce a catalizzare la nostra attenzione anche quando nascosto dietro l’ombrello sparisce quasi del tutto alla vista, si tratta di “recitare l’assenza” insomma, come Grotowski prima e Barba poi ci hanno insegnato. Si tratta di avere energia e non forza, si tratta di essere sempre in movimento, anche quando il movimento ha smesso di essere. Bojana Lazarevic tratteggia invece una Greta a tratti piagnucolosa e sopra le righe, ma che nella parte finale riesce a riappropriarsi di una maggiore verità interpretativa, offrendo così al suo personaggio la varietà e ricchezza di toni che le erano mancati.
La Metamorfosi di Kafka è un racconto polisemico e il teatro, che è esso stesso luogo polisemico, finisce per deformare qualsiasi deriva dal testo o qualsiasi tentativo di riportarne la magmatica materia entro un unico corso, per questo onestamente e con grande umiltà Pagin, nel programma di sala, affida in ultima analisi ogni risposta allo spettatore, restituendo al teatro quello spazio di libertà creativa che gli appartiene.
I mille interrogativi su e di Greta e Gregor non possono che restare inevasi, dal momento che interlocutoria ci appare nella sua essenza la vista stessa, forse lo sguardo smarrito di Gregor, misto di terrore e meraviglia di fronte alla sua straordinaria mutazione, è l’unica risposta possibile che un palcoscenico ci può rimandare.