L’appuntamento con le prime esecuzioni assolute è diventato una piacevole consuetudine del Maggio e la continuità della proposta crea un percorso trasversale che attraverso gli anni contribuisce a generare nel pubblico, oltre all’abitudine, una maggiore consapevolezza nei confronti dell’opera contemporanea.
Quest’anno, nell’ambito di un festival che ha come filo conduttore la cultura mitteleuropea, è la volta di “La metamorfosi”, prima opera lirica della giovane compositrice romana Silvia Colasanti, ispirata al celebre racconto di Kafka.
La produzione è il risultato di una collaborazione stretta e coerente fra la compositrice e il regista Pier’Alli, coautore dell’opera in quanto artefice di libretto, regia, scene, luci,video e costumi.
L’opera rispecchia la tripartizione kafkiana: dapprima il risveglio di Gregorio trasformato in insetto e il suo necessario confrontarsi con la realtà della famiglia e del lavoro, poi la vita quotidiana dopo la metamorfosi e la progressiva alienazione, infine la morte dello scarafaggio che “libera” i familiari, non prima di aver rivendicato un diritto all’umanità nel godere della musica del violino suonato dalla sorella.
L’intima cornice del teatro Goldoni favorisce la concentrazione e fin dalle prime note del preludio veniamo catapultati in un’atmosfera particolarmente cupa per la musica tesa e allucinata e le frammentarie immagini proiettate sul velatino di proscenio che alludono a un universo ibrido (vegetale, minerale, animale) che genera pulviscoli d’insetti e arti sfuocati che s’intrecciano in una grigia metamorfosi.
La scena è buia, un bianco e nero che vira al seppia dalle tonalità brune e ferruginose; una parete mobile divide come un diaframma pulsante lo spazio: la camera buia dove è “prigioniero” Gregorio, di cui intravediamo le movenze in controluce, e una sala da pranzo piccolo borghese illuminata da una luce fioca in cui si dipanano le dinamiche familiari.
L’atmosfera inizio secolo è ben evocata dai video in bianco e nero che accennano a vicoli scorti da una finestra, quadri che si affastellano a cassettiere, oggetti della memoria che si dilatano come la vecchia sveglia o la macchina da scrivere dai tasti giganteschi e poi luci sfuocate, ombre, nebbie praghesi, figure grottesche che affiorano a tutto campo sullo schermo per tradurre le ossessioni inconsce.
Kafka rifiutava ogni illustrazione realistica del personaggio e lo spettacolo vi è fedele in quanto evita ogni rappresentazione didascalica; la mostruosità viene trasfigurata ed il carattere ibrido è risolto con espedienti multipli: un mimo traduce sulla scena i movimenti striscianti e dolorosi dello scarafaggio, mentre la voce fuori campo è affidata alle lucide parole di un attore e a un coro polifonico che esprime le sue sensazioni. Gli altri personaggi hanno una vocalità tradizionale dal canto per lo più declamato e adotteranno il parlato solo alla fine per esprimere un ritorno alla normalità come del resto i colorati abiti da giorno di festa.
L’opera mantiene alta l’attenzione dello spettatore per un’ora e mezzo senza pause, merito di un soggetto affascinante, di una scrittura musicale tesissima, di una straordinaria unitarietà stilistica fra parte visiva e musicale, entrambe visionarie e fluttuanti, particolarmente adatte a instaurare rimandi con le cupe atmosfere kafkiane.
La scrittura di Silvia Colasanti, densa e corposa, quasi magmatica, evoca l’inquietudine e con un largo uso di crescendi e diminuendi che immerge in un clima di ansietà senza scampo. Per sottolineare le tre parti vengono impiegati mezzi stilistici e timbrici diversi: l’intenso fremere degli archi introduce la tensione ed in particolare i contrabbassi danno il giusto colore al sonno agitato e al risveglio, forte rilievo hanno le percussioni che commentano con ironia la cena piccolo borghese dove s’insinuano accenni di un valzer espressionista o le campane che accompagnano i brutali colpi di scopa con cui la governante spazza via l’insetto.
Ottimi tutti i cantanti-attori per tenuta vocale ed intensità interpretativa. Gregorio Samsa ha la voce partecipe di Edoardo Lomazzi e le rapide movenze di Fabrizio Pezzoni. Laura Catrani è la sorella, l’unico personaggio della famiglia ad avere un po’ di umanità come la voce sopranile lirica ben suggerisce. Intensa e dolorosa la madre di Gabriella Sborgi, debole e rassegnata. Roberto Abbondanza fa un ritratto amaro del padre autoritario e continuiamo ad apprezzare, oltre che la voce sicura, la sensibilità d’interprete. Tiziana Tramonti è una governante sgradevole e decisa. Michael Leibundgut è il procuratore spietato che vede solo le ragioni dei soldi e del potere. Caricaturali i due ospiti interpretati da Stefano Consolini e Daniele Zanfardino.
Perfetta e puntuale la direzione di Marco Angius che imprime una tensione trascinante a un organico ridotto ma dalle sonorità corpose e avvolgenti. Bene anche il coro preparato da Piero Monti.
Ci fa piacere constatare che il pubblico non si è limitato alla giusta cortesia con cui solitamente si accoglie una prima assoluta, ma ha manifestato un forte coinvolgimento che è esploso in lunghissimi e per certi versi inaspettati (ma meritatissimi) applausi.