Recanati, teatro Persiani, “La mort de Krishna” messo in scena da Peter Brook
IO SONO L’ORIGINE E LA FINE DI TUTTE LE COSE
Una maschera sacra d’elefante, cuscini orientali, un vecchio libro scritto in una lingua lontana, lampade ad olio, paraventi sullo sfondo, petali di fiori sparsi a terra, un giovane musicista che suona musiche indiane, Maurice Bénichou che racconta un episodio del Mahbahrata, la morte di Krishna. Sembra poco. Invece è tanto, tutto.
Krishna interviene nella battaglia tra due famiglie di cugini che si disputano il dominio del mondo e stermina tutti. Viene maledetto dalla regina Gandhari, a cui risponde che tutto si compirà, ma che una luce si è salvata. Anche altri lo maledicono, ma niente può cambiare il destino. “Tutte le creature sono in me ed io sono in tutte le creature, tutto si posa in me come le perle sul filo, io sono l’origine e la fine di tutte le cose”. Allora Krishna ridiventa uomo ed appare a Utanka, lo disseta, lo ringiovanisce, lo fa sposare con sua figlia. Poi, stanco, stremato, solo nella foresta, si stende per terra; un cacciatore per errore lo ferisce con una freccia su un piede e lo uccide, perché il suo tempo è ormai giunto al limite. Il tempo è rovesciato, il tempo stermina tutti. Vyasa (il poeta che ha composto il Mahbahrata) non può più vivere nel mondo senza Krishna, come se il fiume si prosciugasse, come se la montagna si spostasse, “come se non riuscissi più a tendere l’arco”, perché l’uomo dall’anima incommensurabile non c’è più.
Il dharma è alla radice del pensiero indiano. Il dharma è sia l’ordine del mondo sia l’ordine individuale di ogni uomo, che deve essere conosciuto e rispettato. C’è un legame profondo e inscindibile tra il dharma individuale ed il cosmo: se gli uomini non rispettano il proprio dharma finiscono per mettere in pericolo l’ordine del mondo. Vyasa ha composto il Mahbahrata per imprimere il dharma nel cuore degli uomini.
L’immancabile tappeto e altri segni della cifra stilistica di Brook mi danno l’impressione di essere non spettatore ma partecipe a un rito che trasmette voglia di vivere ed è al tempo stesso triste e vivacissimo. Nel teatro risuonano le parole antiche e profonde del mito, che rivela le sue essenza, vitalità ed attualità, mentre le componenti oniriche ed incantatorie risaltano grazie al talento di Bénichou, narratore straordinario, misuratissimo, capace di stupire con una storia antica di duemila anni eppure di disarmante attualità. Il respiro che emana è cosmico, la traccia che lascia è eterna, la sensazione che rimane è di vita, di forza, entrambe imperiture.
Seduto a teatro, mi sono chiesto quanto ancora potrà durare un mondo così, come è il nostro, retto esclusivamente dai criteri incolti, disumani ed immorali dell’economia. Con la suggestione di quel poema che parla di un mondo lontano, di un tempo lontano, immagino storie ancora tenute in serbo per quando, dopo il Medioevo del materialismo, l’umanità dovrà ricominciare a mettere altri valori nella propria esistenza.
Visto a Recanati, teatro Persiani, l’8 ottobre 2005
FRANCESCO RAPACCIONI