Un equilibrio riuscito tra narrazione allusiva e satira dichiarata: era questa probabilmente la scommessa registica alla base della nuova lettura de La nonna, pièce dell’autore italoargentino Roberto Cossa, portata sul palco del Duse nella produzione del Teatro dell’Archivolto.
Ambientata e pensata nell’Argentina degli ‘anni ‘70, in tempo di dittatura e di recessione, La nonna è la storia paradossale di un’anziana donna che, con un appetito implacabile, affama e sfinisce tutti i membri della sua famiglia. Nel crescendo parossistico della fame, sono chiaramente leggibili tutti gli elementi della perenne dialettica tra individuo e potere: la voracità insaziabile dello Stato, che non si ferma neppure dinanzi alla miseria dei cittadini, l’inetta acquiescenza della Chiesa (ben rappresentata nel personaggio della zia Angela), la critica inefficace degli intellettuali (di cui Ugo Dighero dà una vivida incarnazione nella figura del musicista nullafacente Chico).
Eppure, nonostante quest’aperta chiave di lettura, agevolata anche dall’inverosimiglianza della vicenda, la pièce non perde nulla in godibilità, respiro narrativo, interesse dello spettatore nei confronti dei personaggi.
In parte per l’impostazione drammaturgica del testo (negli anni in cui è composto, di certo si poteva dire poco, e mai direttamente), in parte per una lettura registica attenta all’intento dell’autore, la rappresentazione mantiene un forte impatto anche in una prospettiva non politica, come tragico epos familiare, in cui tutti i discendenti restano sconfitti o sterminati.
In questo senso risulta più che riuscita l’interpretazione di Simona Guarino, che dando alla Nonna un accento straniero e una sintassi sconnessa, le restituisce molta della sua spietata estraneità a ogni preoccupazione o sentimento altrui. In nome di “formagia salama prosiuta”, si consuma il progressivo inabissarsi di una famiglia verso la morte e la miseria. Né può giovare alcun rimedio, buono (tentare di blandire la nonna) o cattivo (farla sposare a un ricco commerciante); persino il veleno è inefficace per questo stomaco d’acciaio.
Nel frattempo, i numerosi frigoriferi che popolavano la scena escono fuori dalle quinte, portati via dagli stessi attori; la scenografia, felicemente pensata all’inizio come caricatura di interno borghese, semplice ma decoroso, si spopola progressivamente, lasciando spazio a un vuoto carico di valenza drammatica, in cui le morti successive dei personaggi sono ricordate da corone di fiori.
Notevole, in questo senso, è anche l’uso della luce sul palco, specie nei lampadari e nei frigoriferi spalancati. Nell’illuminazione, è sempre rappresentata la vita del giorno, il risveglio della nonna, il suo richiamo verso la colazione, mentre nel buio, i familiari trovano una tregua precaria, si raccontano pene, angosce, piani per liberarsi del problema; un po’ come dire che solo nel buio, la verità si può trovare e vedere…
A due giorni dall’esito della tornata elettorale, La Nonna è uno spunto choccante di riflessione sulle dinamiche del potere, ma anche un’occasione per ripensare in modo inconsueto una parte - di noi e del nostro vivere civile – che non sempre siamo disposti ad esplorare. Nell’avidità e nell’acquiescenza, nell’inganno e nella rassegnazione, sono due facce dello stesso male che colpisce chi perde empatia verso il bene dei suoi simili; è per quel male che spesso abbiamo bisogno di buio, nel buio, appunto, riconosciamo una parte del prossimo, una parte di noi.