Mogliano, teatro Apollo, “La pecora nera” di Ascanio Celestini
REQUIEM PER I LUOGHI DELLA PAURA
Cambia leggermente ma in modo significativo la cifra narrativa di quel genio che è Ascanio Celestini nel suo nuovo, emozionante spettacolo. Rimane il fiume di parole che ci ha da sempre trascinato, il magma incandescente che ci ha incantato, il ritmo che ci ha procurato inusitate vertigini. Rimane la meraviglia dell’immaginazione e la concretezza di un viaggio nelle parole e con le parole. Rimane il procedere per immagini che si sovrappongono e si susseguono ma che periodicamente ritornano, come cerchi concentrici che poggiano su punti fissi, come stazioni a cui ciclicamente il racconto di ferma. Nuovi sono l’effetto comico ed il richiamo ad una visceralità fisica, rimanendo però vicino a quella purezza di sentimenti ingenui e forse ancora più calzanti a cui ci aveva abituato da sempre. Il resto è lui: Ascanio che parla, il vestito nero, la barbetta, la sedia, la lampadina, oltre qui a un manichino e ai prodotti del consumo di massa, riverbero di una società che ha nel proprio benessere quello che la imprigiona.
Il viaggio questa volta è dentro la realtà manicomiale italiana, luoghi di totale spersonalizzazione, come i supermercati, luoghi creati per una diversità che spaventa. Luoghi però in cui sentirsi protetti, rifugi possibili che sembrano accettabili, di fronte alle paure.
Il viaggio è lirico, poetico, un percorso in un mondo evanescente ma concreto, sospeso in un tempo passato ma ancora attuale. Il viaggio non è un’epopea contro qualcosa e qualcuno o a favore di qualcosa e qualcuno, non è neppure un’indagine, né scientifica, né sociologica, né giornalistica. Solo un affresco visionario e strampalato, un racconto di immagini bellissime e struggenti, con il gusto amaro di chi cammina ignaro verso il nulla. Raggelano quei pochi momenti in cui si ascolta registrata la voce di uno di quei “poveri matti”, le cui parole si sovrappongono a quelle di Ascanio, le cui parole sono le stesse di Ascanio, le stesse di Nicola.
Ascanio racconta di Nicola, a momenti è Nicola che racconta, Nicola che ricorda e sogna, Nicola che rivive l’infanzia, la prima cotta per la bella Marinella, la tenera prova di coraggio per lei, l’incontro da adulti al supermercato, la figura della nonna che lo ha accudito mentre la madre era ricoverata in istituto, i favolosi anni Sessanta ed il sapore-di-sale-sapore-di-mare. Di immagini struggenti è pieno il racconto, in una per tutte Nicola è vestito da coniglio, un costume riciclato da vent’anni prima nel condominio, una vecchia maschera con una orecchia rotta che penzola e da cui esce un filo di ferro arrugginito. Oppure come non ricordare che “nel cervello ci sono luci accese o spente, a seconda del tipo di matti. Quelli che hanno le luci accese non dormono mai e nel manicomio fanno in modo tale che le luci siano a volte spente e essi possano riposare; quelli che hanno le luci spente hanno paura del buio e nel manicomio fanno in modo tale che le luci siano a volte accese. Ma in questi manicomi elettrici ai matti danno talmente tanta scossa e i matti prendono talmente tanta corrente elettrica che dopo morti i matti rimangono in giro di notte con la lucina sempre accesa”: ecco cosa sono le lucciole secondo Nicola. Però i loro corpi vengono maltrattati, i crani aperti, i cervelli estratti per capire che cosa non funzionava…
Ma soprattutto il racconto ed i sogni di Nicola ci parlano della paura del buio, di tutte le paure, di tutto quello che ogni giorno ci fa morire. E questo è forse il senso remoto della pecora nera, una riflessione sulla paura, sulle tante paure eterne che ci imprigionano da bambini, da ragazzi, da adulti, da vecchi: la paura del buio, la paura della solitudine, la paura di non riuscire, la paura di non essere accettati, la paura di non essere amati, la paura di essere visti come “diversi”, la paura di essere visti come “la pecora nera”, la paura di vivere in un mondo che fa paura, la paura di essere noi stessi, la paura delle proprie paure. La paura come una malattia. “Di paura si può anche morire”. E allora solo le parole servono a superare questa paura. Solo parlare, solo ascoltare.
Così lo spettacolo è imperdibile, il racconto di Ascanio restituisce al teatro la dimensione originaria del rito, dell’incontro, dell’emozionarsi, un rito salvifico. “L’amore è per sempre, l’amore dura un attimo”.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Mogliano, teatro Apollo, il 27 novembre 2005.
Visto il
al
Rossini
di Civitanova Marche
(MC)