Andando ad assistere a "La principessa Aoi" di Yukio Mishima al teatro "La scala della vita" di Milano, non ci si deve preoccupare di conoscere le peculiarità del teatro nō, singolarissima arte drammatica giapponese. Cosi come non ci si deve aspettare di vedere i sacri pini sul retropalco o gli attori in kimono che interpretano i ruoli femminili.
Di per sé il più antico dei generi del teatro giapponese assieme ai suoi 250 testi teatrali, scritti molto prima che nascesse Shakespeare, non avrebbero bisogno di alcuna recensione, se accanto all'enigmatica "nō" non figurasse la parola "moderno". Infatti, trattandosi di una forma d'arte che da più di seicento anni accompagna invariabile la società giapponese, tale accostamento suona quasi come una provocazione. Tuttavia, anche in una nazione come il Giappone, tradizionalista per antonomasia, non tutti concordano la sua immutabilità poiché, col passare dei secoli, questi ha assunto sempre di più le sembianze di un rito, distaccandosi completamente dalla realtà .
Molti scrittori del Paese del Sol Levante hanno provato a cimentarsi in questo genere classico, cercando di rimodernare il sacro mostro. Ciò nondimeno, solo Yukio Mishima – considerato lo scrittore giapponese più letto al mondo, conosciuto non solo per la sua prolifica produzione letteraria, ma anche per le sue controverse ed eccentriche vicende private - è riuscito a raggiungere il vero successo in questo campo. Dal punto di vista dello spettatore occidentale, abituato al carattere estroverso del teatro europeo, il suo merito consiste sicuramente nell'essere stato in grado di rendere più intelligibile il contenuto di antichi testi senza privarli del loro profondo significato originale.
"La principessa Aoi", l'ultima produzione della compagnia Aiòn diretta dal regista Stefano Bernini, fa parte della raccolta di Mishima "Cinque Nō moderni". La brevissima piéce, tratta da uno dei capolavori della letteratura giapponese Genji monogatari (Storia di Genji, XI secolo), probabilmente è l'opera teatrale giapponese più allestita al mondo. In Italia, a partire dagli anni ottanta, è stata messa in scena da Sandro Sequi, Ida Kuniaki e Tito Piscitelli.
Seguendo l'idea di Mishima, il cui "Cinque Nō" apparentemente ha poco in comune con il nō nel senso classico del termine, pur lasciando ai personaggi i loro nomi, Bernini ambienta il suo spettacolo lontano dalla realtà giapponese. Niente, dunque, kimono e ventagli, riverenti inchini ed espressive pause. Leggero e dinamico, scorre come un sogno, ben lontano dalle lente e languide rappresentazioni orientali. Il mondo dei fantasmi interiori di una donna malata – che nella prima scena viene raccontato attraverso una psichedelica danza eseguita dalla taciturna protagonista (Irene De Luca) - si intreccia con l'ancora più surreale coesistenza notturna del marito ( Christian Gallucci) e dello spettro della sua gelosissima ex amante (Wilma Minuti). Tuttavia, non è difficile accorgersi di un attento lavoro di ricerca svolto dagli attori che ha consentito loro di attingere a quella particolare forza espressiva, propria al teatro nō, quando un gesto appena accennato o un leggero movimento della testa paiono assai più eloquenti di lunghi e prolissi monologhi.
Nato dalla cultura meditativa buddista, storicamente il teatro nō propone al pubblico il minimo della spettacolarità. I suoi allestimenti ritualmente statici invitano a una contemplazione lenta e silenziosa sia coloro che stanno in platea che gli attori sul palco. Il teatro nō non pone domande e non attende risposte. Perché quel che afferma è la verità suprema che non necessita di commenti. Sentimentalismo, iperbolicità e illusorietà sono le parole che meglio di tutte lo definiscono.
Anche sul palco milanese vige la sobrietà e il minimalismo. La danza iniziale e l'assai realistica scena delle torture (abilmente eseguite da Laura Fedeli che interpreta anche la sensuale infermiera) alla fine potrebbero considerarsi i soli "eccessi" occidentali che il regista si è concesso. Gli unici elementi della scena, languidamente illuminata (come il teatro nō richiede) sono una struttura di ferro e lo scafo di una barca che fa la sua comparsa a metà dello spettacolo e poi scompare di nuovo (nel testo originale, invece, è prevista la comparsa di una vela). Il primo, che rappresenta un letto d'ospedale, svolge il ruolo del tipico palanchino che nel teatro giapponese ospita il personaggio principale. I gesti dei protagonisti sono contenuti, i loro sentimenti sono reticenti, ma sicuramente non repressi.
Lo svolgimento rallentato intensifica la pressione interna. La tensione cresce gradualmente sino ad arrivare alla catarsi, all'esplosione finale. Lo spettacolo sicuramente necessita ancora di ulteriori rifiniture per avvicinarsi a quell'eleganza e alla fluida armonia dei gesti torniti che contraddistinguono la superba e signorile arte giapponese. Soprattutto per quel che riguarda la carica energetica tramite la quale gli attori dell'antico teatro comunicano con il pubblico. E anche se, nell'ambito della moderna estroversa cultura europea, è praticamente impossibile ottenere il prodotto di purezza paragonabile a quella del teatro nō, già allo stato attuale, gli attori riescono a trasmettere quel briciolo di energia del vuoto e di concentrazione emozionale sufficienti per portare lo spettatore, almeno per un'ora, lontano dal frenesia della grande città.