In un’epoca che non riconosce il talento, tutta orientata com’è al primato dell’apparenza, i valori che orientano l’immaginario collettivo, soprattutto quello borghese, sono l’effimero e il volgare; conformata a questo canone viene ritratta la classe media napoletana – ma forse la borghesia tout court – nel nuovo, pungolante spettacolo dei Virtuosi di San Martino La Repubblica di Salotto, fresco campionario di caricature e parodie in forma di teatro-canzone.
Incapace di un sentire autentico – perfino della violenta tragicità che animò la Repubblica Sociale – l’uomo medio contemporaneo aspira a dar forma alla sua esistenza presentandosi come riconoscibile e unico allo sguardo dei suoi simili, in una sorta di ratifica tribale; quel presenzialismo da salotto che nell’arguto calembour del titolo viene icasticamente fotografato come simbolo della vacuità militante. La satira avvelenata di Roberto Del Gaudio ritrae un microcosmo culturale meschino e autoreferenziale, dove l’abilità non è indispensabile quanto la visibilità; un sistema fatto di tipi esemplarmente mediocri, soggetti soltanto al giudizio dell’ego, che praticano per vocazione l’ascesa sociale pur non avendone i mezzi. Assai godibile ad esempio il ritratto del “regista off” tutto vezzi e cliché da mostro sacro; o quello del pensatore “moderato” che non si cambia neppure i calzini «perché cambiare fa male».
Non è una satira accondiscendente quella dei Virtuosi, e lo si capisce quando insistono su alcuni riferimenti “intoccabili” della cultura borghese, come i cantautori De André e Battisti; anche se è poi chiaro che l’oggetto del ridicolo non sono, naturalmente, i musicisti stessi, quanto l’atteggiamento intellettualmente plebeo che tutto “sacralizza” e tutto confonde, dissipando il senso delle cose. Ricca e funzionale la struttura della canzoni, elegantemente orchestrate da Odling sui testi di Del Gaudio, che si articolano in un consapevole mescolamento di “alto” e basso”, di armonie spregiudicate e di allusioni corporali e oscene al limite della contrepeterie. Un punto di massima finezza si raggiunge nel pezzo «Napule, napule», ove gli stilemi della canzone oleografica sono formalmente ripresi e rovesciati in un grottesco canto di decadenza.
E come negli spettacoli del teatro-canzone di Gaber il pubblico ride di gusto, sebbene una parte consistente dell’invettiva lo raggiunga come bersaglio principale. Certo è lontana un secolo l’epoca in cui i futuristi riversavano il loro ridicolo sugli spettatori, eccitandone ad arte lo sdegno; in tempi di autoironia e di dignità negoziabile la critica dei comportamenti sociali che discende da un palco non è più forte dei simboli di appartenenza al gruppo, e produce un distaccato divertimento. D’altro canto già Gaber negli anni Ottanta lo cantava apertamente: la società sguazza nel degrado per colpa dei barbari, ma chi sono i barbari? e alla domanda si rispondeva indicando beffardamente il pubblico stesso. Di quell’ammissione di responsabilità si sorrideva allora come di un rimprovero ricevuto tra amici, con una punta di disappunto e di vergogna. Vien da chiedersi se lo spettatore che applaude oggi i Virtuosi di San Martino, ridicolizzato per le sue vacue latrie e il suo plumbeo conformismo, senta più di esser partecipe al coro del degrado, o se l’evaporazione della responsabilità, così propria dei nostri tempi, gli faccia piuttosto ritenere che il discorso riguarda soltanto i vicini di poltrona.
Visto il
29-12-2009
al
G. Mengoni
di Magione
(PG)