Il genere idillico-pastorale che tanta fortuna ebbe nei primi '800, ha i suoi vertici in due opere presentate a distanza di un anno, entrambe in teatri milanesi: La sonnambula (1831) e L'elisir d'amore (1832). Ma se in quest'ultima è presente un innesto comico nelle figure di Dulcamara e Belcore, la prima non conosce contaminazioni di tal sorta, e rimanda l'ideale immagine d'una società agreste schietta ed incorrotta, che ricompone al suo interno ogni eventuale stortura. Nessun manierismo, né scivolate nell'oleografia: merito primo della musica che mantiene un'altissima ispirazione ed un tono omogeneo da capo a fine, con un'orchestrazione genialmente discreta ed essenziale, ed un'attenzione estrema alla linea vocale che trova nell'aria finale «Ah, non credea» la sua massima eloquenza.
Un'opera tutta imperniata sulla protagonista
Ed è questa una melodia tipicamente belliniana, le cui lunghissime arcate – che tanto piacevano a Verdi - paiono tendere all'infinito; e che supportate da accorte trovate armoniche sono ineguagliabili in espressività. Creata per una virtuosa quale fu la Pasta, la parte di Amina – che sta a Norma come una leggera gouache sta ad un olio - non indulge però a troppe acrobazie vocali, e non è terreno di garrule interpreti usignolo. Qui ce la restituisce la grazia, la giovanile freschezza, il saldo controllo di Aleksandra Kubas-Kruk, giovane soprano polacco dal timbro soave e dalla vocalizzazione perfetta. Elvino è il tenore romeno Bogdan Mihai: inappuntabile nell'affrontare l'astrale tessitura, persuasivo nella resa d'un personaggio combattuto tra opposti sentimenti. Filippo Polinelli centra con misurata eleganza e buona comunicativa il ruolo del Conte; il soprano ucraino Olga Dyadiv è una piacente Lisa; il catalano Marc Pujol è un buon Alessio. Namiko Kishi e Motoharu Takei impersonano Teresa ed il Notaio.
Un curioso accostamento di mobili, grandi e piccini
A delineare un'esecuzione incantevole molto ha contribuito la superlativa direzione del maestro madrileno Guillermo Garcìa Calvo: il senso del racconto non manca mai, l'abbandono al canto e la leggerezza nel sostenere il cast neppure. E pregevole è la capacità di creare - e mutare in un amen - le pertinenti atmosfere, sempre ben assecondato dall'orchestra triestina (un po' meno dal coro, talora greve).
Lo spettacolo proviene dal Petruzzelli di Bari: disegnati costumi ipertradizionali, colorati e ben curati, Cristian Taraborrelli ci cala in un'ambientazione fatta di mobili minuscoli, normali e giganti accostati in scena, con un villaggio descritto da piccole casette illuminate. Quanto alla regia di Giorgio Barberio Corsetti, rispetta il libretto e non brilla per particolare inventiva, nemmeno nei pupazzi che passano di mano in mano; e l'agitar di fiori da parte dei coristi sfiora il ridicolo.