Osserva Folco Portinari nel suo saggio Pari siamo! che La sonnambula di Romani e Bellini sancisce nel 1831 l'avvento e la fortuna del dramma idillico, «formula della cultura conservatrice italiana, cattolico moderata, usato come strumento edificante, buono non solo per la sua funzionalità morale, ma anche per il suo ottimismo di fondo, gratificante e consolatorio». E lo fa usando una ricetta ben precisa: qualche residuo arcadico – qui un ameno paesaggio alpino – e qualche messaggio cattolico, alcune peripezie drammatiche, una catastrofe in apparenza irrimediabile, e l'aggiustamento finale d'ogni incrinatura tra la contentezza finale di tutti (o quasi).
Una formula nuova e stravincente
La sonnambula è quindi qualcosa in più di un piéce à sauvetage come La gazza ladra di Gherardini e Rossini, che la precede di tre lustri. E siamo grati alla rassegna Estate Fenice – il nome dice tutto – abbia voluto recuperare questa bella edizione del 2012, con la fluente ed ammiccante regia di Bepi Morassi che, complici le deliziose scene di Massimo Cecchetto ed i sapidi costumi di Carlos Tieppo, colloca la vicenda tra le montagne svizzere sì, ma quelle degli Anni Trenta del secolo passato. Ecco dunque che il Conte giunge sulla panoramica terrazza d'un rifugio d'alta quota a bordo d'una rossa funivia, tra nuvoli di sciatori in maglione e pantaloni alla zuava. O che i paesani, per recarsi al castello a perorare la sorte di Amina, salgano su di una fiammante corriera d'antan.
Palcoscenico e golfo mistico in pieno accordo
Idee dunque assai originali e simpatiche, nonché compiutamente realizzate, quelle di Morassi & soci. Se poi ci mettiamo che la partitura è stata ben servita dalla direzione di Fabrizio Maria Carminati, il quadro risulta completo. Realizzando un armonioso insieme espressivo, anche perché supportato da un felice senso teatrale, il direttore lombardo ci ha infatti consegnato una lettura più che convincente: per la variegata tavolozza di colori, per l'elevata attenzione allo strumentale, per il sostegno scrupoloso alle linee vocali.
Positiva pure la scelta delle voci in campo, già dall'Amina di Irina Dubrovskaya. Il giovane soprano siberiano tratteggia infatti, con un timbro morbido e leggiadro, ed una vocalizzazione irreprensibile ed elegante - specie negli ardui passaggi di agilità - una figura eterea e trepidante, intrisa di tenera femminilità. Il tenore Shalva Mukeria infonde naturale musicalità e buona profondità al suo Elvino, superando indenne i problemi dell'ostica tessitura; ma anche proponendo una scelta di belle inflessioni e buoni colori. Roberto Scandiuzzi delinea con la sua consueta, signorile eleganza la figura del Conte Rodolfo; Silvia Frigato è una Lisa giocata troppo sul versante soubrettistico; bene Julie Mellor come Teresa e William Corrò quale Alessio. Pubblico alquanto eterogeneo – molti i turisti di passaggio - visibilmente soddisfatto dello spettacolo, e generoso di applausi agli interpreti.