La Statira che ci è stata appena presentata al Teatro Comunale di Treviso è una delle pochissime sue opere superstiti, le cui partiture sono sparse per il mondo.
Se gli ordigni alleati nel 1945 non avessero devastato Dresda, noi conosceremmo l'intero corpus teatrale di Tomaso Albinoni che vi era conservato. La Statira che ci è stata appena presentata al Teatro Comunale di Treviso è una delle pochissime sue opere superstiti, le cui partiture sono sparse per il mondo.
Grazie alle forze messe in campo dal Conservatorio “B. Marcello” di Venezia, in questo 'dramma in musica' su versi di Apostolo Zeno e Pietro Pariati possiamo scoprire una tipica partitura del tempo, soggetta alle consuetudini del melodramma tardo barocco, con la sua canonica sfilza di recitativi ed arie, e rari brevi pezzi a due, a tre, a quattro. Ben superiore alla media, però, e forte di una fresca inventiva melodica e d'un sostegno orchestrale ricco e variato, nel quale confluisce la ricchezza musicale della scuola veneziana. Scuola di cui Albinoni, non dimentichiamolo, in campo strumentale è stato una delle punte massime.
Opera rappresentativa del suo tempo
Melodramma creato a Roma nel 1726, e giunto a Venezia solo qualche anno dopo - ma apprezzato all'epoca anche altrove - presenta un intreccio elementare: caduto in battaglia il re Artaserese, il trono di Persia viene conteso da due principesse, la virtuosa Statira fidanzata al comandante Arsace, e la perfida Barsina, incline agli intrighi. Arsace finisce in catene, accusato a torto d'aver tentato d'uccidere Oronte, saggio sovrano degli Sciti che ha appena conquistato il paese. Sarà quest'ultimo ad individuare infine in Statira la più degna erede, dopo aver scoperto l'innocenza di Arsace. Operando sull'amorevole revisione di Franco Rossi, Francesco Erle e Francesco Bellotto ne hanno tratto, sacrificando le pagine meno interessanti, un agile dramma di un paio d'ore abbondanti che raccoglie il meglio della partitura.
E ne hanno affidato l'esecuzione all'Orchestra Barocca del Conservatorio in cui insegnano – compagine precisa e versatile - ed ai giovani cantanti che frequentano al suo interno i corsi di Opera Studio. Si intravedono voci a buon punto di preparazione, e bastevolmente salde in scena: sono quelle dei soprani Giuseppina Perna (Statira), Ligia Ishitani (Barsina), Michele De Coelho (Arsace), e del tenore Jie Bao. Per le altre - quelle di Tianhong Xi (Oronte), Yi Hao Duan (Dario) e Andrea Gavagnin (Idaspe) - bisognerà pazientare ancora un po'. Il bravo mimo Marco Ferraro impersona l'ombra irrequieta di Artaserse.
Spettacolo semplice ma attraente
Francesco Erle sovrintende al côté musicale concertando con savia, leggera ariosità, ideale proprietà stilistica – è un ottimo conoscitore del repertorio antico – e con un vivido senso teatrale. In scena vediamo solo due grandi specchi intarsiati, che rappresentano i divergenti caratteri delle due protagoniste, legate all'inizio da una inseparabile catena. Con qualche cancellata in più, ecco la prigione per Arsace.
In veste di regista, Francesco Bellotto riesce a vivacizzare con approfondita cura recitativa ed qualche trovata scenica un soggetto ben poco dinamico. Scene di Alessia Colosso, abiti di Carlos Tieppo (candidi per i 'buoni', rossi per i 'cattivi'), illuminazione di Roberto Gritti, per una produzione nata in collaborazione con La Fenice, ed inaugurata a marzo al Teatro Malibran di Venezia.