"Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni" e ad un sogno assistiamo nell'allestimento de "La Tempesta" di Andrea De Rosa. Un sogno che ha inizio con un risveglio violento: un urlo lancinante, un vagito disperato di una donna che dal letto di un ospedale psichiatrico si desta sconvolta dall'incubo in cui ha visto le navi del Re di Napoli distruggersi nella tempesta.
Quella donna non è una pazza, non siamo in un ospedale psichiatrico ma solo sull'isola in cui Prospero, il deposto Duca di Milano, vive da molti anni con la figlia Miranda. Un’isola eterea dall'atmosfera algida. Al centro un lungo drappo scarlatto scende dal cielo fino al terreno roccioso e arido, dietro al letto in cui Miranda dormiva. Suoni di natura e magia saturano di rumori indefiniti l'aria in cui tutti i personaggi vagano sempre assieme, ma ognuno perso nel proprio sogno. L'unico consapevole, desto e padrone degli accadimenti, è Prospero - Umberto Orsini - che ricerca, con l'aiuto dell’aggiogato spirito dell'isola Ariel, la propria vendetta sui suoi detrattori: il fratello Antonio e il Re di Napoli.
La ricerca della vendetta è un viaggio interiore e purificatore con cui Prospero rivive la propria vita per giungere trovando se stesso "quando nessuno era padrone di sé” (Gonzalo atto V). Tutto è quindi nella regia di De Rosa ricondotto a questo percorso interiore di Prospero-Orsini: è suo il sogno a cui assistiamo.
La complessa e articolata commedia shakesperiana è stata ridotta - anche testualmente - al viaggio onirico e mentale di un uomo, di un attore, che ripercorre il proprio dramma per riappropiarsi della propria umanità fino a chiedere, nell’epilogo di Prospero: “liberatemi da ogni inceppo con l'aiuto delle vostre valide mani [...] fate che io sia affrancato dalla vostra indulgenza”.
La storia, i personaggi sono solo funzionali al percorso di liberazione del personaggio-attore e perdono di sostanza e concretezza. E così abbiamo un Ariel senza consistenza annullato nell'orrizontalità dell'interpretazione e nella verticalità di un sali e scendi fisico attraverso un'imbragatura che lo lega alla gratticcia (tra l'altro di strehleriana memoria), mentre gli altri attori vagano da una parte all'altra dell'isola-mente come automi, sempre presenti anche quando non coinvolti nell'azione, creando un situazione confusa in cui non sempre si comprende cosa accade o in che punto siamo della storia. Di pregio è il Colibano di Rolando Ravello che porta in scena, non un mostro tribale, ma un credibile disadattato psichico, fragile e ossessionato dal proprio sesso. Un’ottima interpretazione che però stona con il resto della messa in scena o, forse, accenna a qualcosa che non emerge con chiarezza. Altri accenni, come la scelta del letto psichiatrico, gli abiti da clocharde di Prospero, alcuni riferimenti visivi e addirittura una battuta beckettiana tra Ariel e Prospero (A che servo io? - A darmi la battuta.) fanno pensare ad un legame, un'aspirazione, ma Prospero non è Hamm o l'innominabilie e tutto rimane vago. Oltre gli ammiccamenti a Beckett e altre immagini - come il cristologico spezzare del pane al banchetto per gli innamorati – ingiustificato e deludente è il finale in cui Prospero diventa Orsini e per un attimo la finzione teatrale si interrompe e la realtà diviene mera finzione. Un finale forse che tenta di chiarire l’idea registica di ridurre tutto alla ricerca interiore dell’uomo, attore e personaggio, ma che lascia solo perplessi. Fortunatamente e grazie ad un'ottima prova d'attore di Umberto Orsini, gli ultimi istanti di spettacolo riprendono l'aspetto dell'arte con l'abito di parole del grande Shakespeare.
Visto il
26-01-2010
al
Ivo Chiesa
di Genova
(GE)