Lirica
LA TRAVIATA

Bologna, teatro Comunale, “La…

Bologna, teatro Comunale, “La…
Bologna, teatro Comunale, “La traviata” di Giuseppe Verdi L’AMORE: UNA TRISTE PISCINA VUOTA, UN’AFFOLLATA SOLITUDINE, UN LUOGO IN DISUSO A me questa Traviata è piaciuta. Il problema è stato quello di aver caricato la regia di troppe aspettative, di avere atteso grosse novità senza trovarle nello spettacolo. Ma vado con ordine. La tinta di Traviata è duplice, una mondana e sentimentale giocata sull’uso di un latente ritmo di valzer più o meno insistente, l’altra funebre, solenne e austera. Dall’inizio è chiaro che il Maestro Gatti ha saputo trovare una nuova chiave di lettura, perché imprime una sua decisa impronta nel rispetto della partitura, mutando i tempi, allargandoli sin dall’inizio con una struggente pausa. L’orchestra del Comunale risponde bene e permette a Gatti di rivelare nuove sonorità, dettagli poco rilevati, virgolature poco frequentate, tempi che improvvisamente mutano. Tutto molto interessante. A cominciare proprio dall’overture, sussurrata dai violini con inusuale, inaspettata, infinita, autunnale, eterna malinconia. Da brivido, da lacrime. Emozionante. Il sipario si apre da subito e qui è notevole lo spunto della Brook. La overture dell’opera è un flashback musicale, la narrazione a ritroso condotta attraverso le note di quelli che saranno i momenti salienti: il ritratto musicale della protagonista nel momento del declino fisico (i diafani violini del primo tema, dominanti nell’atto terzo), la tormentata relazione amorosa (“Amami, Alfredo!” al centro del secondo atto), i giorni spensierati della vita parigina in cui la passione era nata (il guizzo frivolo e brillante dei violini, sul tema amoroso del primo atto ripetuto dagli archi gravi). E il sipario si aprirebbe nel mezzo di una festa rumorosa e popolarissima, con la consapevolezza che ciò che avverrà è già passato, una situazione di allegria che il tempo ha ormai inesorabilmente travolto e cancellato. Invece il sipario di apre con le prime note. Lo spunto della Brook non è nuovissimo, ma è bello, perché al flashback musicale ne corrisponde uno in scena, appena accennato. Sul palcoscenico nevica, sulle note del preludio Alfredo è in proscenio, inginocchiato a terra, singhiozza disperato e stringe tra le mani un abito da donna. Sullo sfondo passa lentamente una donna con lo stesso abito, una donna che è nel momento di massimo fulgore, una diva in un momento di immortalità, una donna che, evidentemente, quell’uomo innamorato ha invece perduto per sempre. Splendore di gioventù e tragedia, amore e morte, festa e inevitabilità del destino. Poi incomincia la festa. Una festa che è il fulcro della tragedia, una festa che finisce con Violetta turbata, innamorata sì, anzi di più, amata da chi lei ama, ma comunque decisa a continuare la sua vita. L’inizio del secondo atto è così una sorpresa inaspettata: un tranquillo ménage di campagna, la riva di un lago su cui tramonta il sole e sorge la luna, tra il pianeta Venere e una moltitudine di stelle, un lago appena increspato da una leggera brezza, un lago placido e pacificato, con piccole onde. Poi la caduta di stile dell’altra festa, quella a casa di Flora, un mix tra una festa di carnevale di ambientazione circense ed un circo vero e proprio, con le zingarelle che altro non sono che ragazzine vivaci (evidentemente tifose del Milan, perché munite di corna rossonere) che circolano inutilmente e rumorosamente in platea durante il cambio di scena. Infine l’ultimo atto, in tutti i sensi. Il capannone è desolato e desolante, come la vicenda che vi è ambientata: assi incrociate a chiudere gli ingressi, teli di nylon sul fondo, i vetri sul tetto macchiati da tracce di liquami e ruggine, un senso di abbandono che non può essere modificato da niente e da nessuno. Un abbandono definitivo. Come l’amore che non ha soluzioni, come l’amore che non ha speranze. Il luogo è inusuale, ma splendido: una piscina svuotata dentro un padiglione di archeologia industriale trasformato in un luogo per feste e alla fine in completo abbandono nel luogo in cui Violetta muore. I protagonisti, ora. Norah Amsellem ha una voce rotonda, splendida nel colore e timbricamente perfetta per il ruolo, come poche attualmente ce ne sono in circolazione. Il suono è corposo e al contempo agile per tutta l’opera, il colore brunito, tutti i registri perfetti e splendidi, corposo e forte quello centrale, cupo ed ammaliante quello grave, veloce e guizzante quello alto, una voce che sa salire in modo veloce, potente e controllata fino al temibile mi bemolle sovracuto, una voce che è parimenti veloce e resistente nello scendere, in mezzo un registro centrale solidissimo, inattaccabile, compatto, senza smagliature. Ottima nelle infiorettature di una partitura che ha molti agganci belcantistici. Con una voce di tale bellezza alla Amsellem si possono decisamente perdonare alcuni difetti di pronuncia (qualche consonante saltata e qualche verso spianato) ed un fraseggio non perfetto. Stupefacente è la sua trasformazione nel terzo atto: complice un trucco che la fa apparire cerea, capelli spenti e occhiaie marcate, la Amsellem incede lentamente, ingobbita, scarna, consumata al punto da sembrare un’altra, lontanissima dalla donna esuberante, sfrontata e piena di vita del primo atto, come anche dalla donna innamorata, appagata ma volitiva del secondo. Alla fine è fragile, incerta, debolissima, spenta. Dunque una prova superba sul piano attoriale accompagnata ad una notevole presenza scenica. James Valenti ha grande e piacevole presenza scenica, voce ben impostata, notevole facilità d’emissione ma poco lirismo in alcuni momenti e poca cura in genere. Dalibor Jenis è un Germont poco credibile, anzitutto per la giovane età (e per la lucida coda di cavallo di capelli nerissimi che lo fa apparire piuttosto come il fratello di Alfredo e non come il padre), poi per una voce di colore poco importante, seppure ha una dizione chiara e precisa: il baritono ha un buon registro alto ma un centrale debole, con ombre e velature che non lo fanno risplendere. Tra i ruoli secondari è spiccato Lorenzo Muzzi nel ruolo del dottore: nelle poche battute cantate in modo esemplare con una voce splendida ha trasmesso emozioni forti. Buona la prestazione del coro. La regia, dicevo.. una visione attualizzata ci sta bene, la vicenda di Violetta funziona anche in chiave contemporanea, perché l’amore è atemporale, come le chiacchiere di una società bigotta. La tematica dell’amore e dei sentimenti privati che si scontrano con la morale pubblica, con una società borghese e benpensante (falsamente ed ipocritamente benpensante) era attuale al tempo di Violetta come oggi ed era autobiografica per Verdi, lui uomo libero che ammirava l’indipendenza della Strepponi, con cui conviveva in mezzo alle chiacchiere. Così la condanna sociale nei confronti di Violetta, il cui dramma personale rimane incompreso, la cui voglia di cambiare vita e di redimersi non viene accettata, quella ferma condanna sociale si scontra con la musica che sottolinea in modo inequivocabile il senso della redenzione. Dando a tutti noi una speranza. Però trasformare la vicenda cupa e intima di Violetta in vicenda paradigmatica ed universale.. non ci sta e le intenzioni della Brook si traducono solo in una regia convenzionale e priva di idee, nonostante lei sia una che il mestiere lo conosce e che indubbiamente sa come muovere i cantanti e le masse. Ma invero mi aspettavo di più, dopo le sue recenti prove nella lirica. Però, complice la bella scenografia, questa Traviata esprime alla perfezione quello che è l’amore ai tempi di oggi: una triste piscina vuota, un’affollata solitudine, un luogo in disuso. FRANCESCO RAPACCIONI Visto a Bologna, teatro Comunale, il 26 novembre 2005
Visto il
al Comunale - Sala Bibiena di Bologna (BO)