Lirica
LA TRAVIATA

Cento volte Traviata

Cento volte Traviata

Doppia inaugurazione della stagione 2014-2015 al Teatro La Fenice, quest’anno tutta verdiana: perché, in contemporanea all’avvio del nuovissimo ed eccezionale Simon Boccanegra diretto da Myung-Whun Chung, è tornata in scena La traviata con la regia di Robert Carsen e le scene e costumi di Patrick Kinmonth (e con la coreografia di Philippe Giraudeau e luci dello stesso Carsen e Peter Van Praet). L’allestimento, cioè, che il 12 novembre 2004 inaugurava la splendida sala veneziana ricostruita dopo l’incendio che l’aveva distrutta, e del quale è stato festeggiato domenica 23 novembre il traguardo della centesima recita (a cui si riferisce la foto).

Lo spettacolo di Carsen e Kinmonth, ambientato pressapoco ai giorni nostri, non è ovviamente mutato di una virgola: non mi entusiasmò molto allora, ma la sua logica interiore ed i suoi ingranaggi sembrano funzionare meglio nel tempo. Forse ci abbiamo fatto l’abitudine…La cifra di base è la rappresentazione di uno sfoggio di vanità mondane, di un degrado morale ed un vuoto di valori, dove vedere Alfredo nei panni d’un fotografo ‘glamour’ diviene una scelta coerente: in un continuo sfarfallio di banconote, l’azione prende avvio già nel ‘Preludio’ iniziale, con una parata di facoltosi clienti colmano Violetta di denaro; altri soldi volano nella vacuità del brindisi, e mentre la donna si libra in Sempre libera degg’io, dai suoi cassetti ne volano piene manciate. Un tappeto di  banconote, come foglie morte che piovono dall’alto, ricopre la casa di campagna sullo sfondo di una foresta di betulle; la festa di Flora è ambientata in un night-club, con un siparietto stile Las Vegas dove piccanti ‘lap-dancers’ si fanno palpeggiare da atletici ‘american dream-men’ mentre sui tavoli da gioco il denaro gira senza sosta. Non ne rimane traccia solo all’ultimo, dato che nello stipo di casa sopravvivono solo i famosi venti luigi da dividere con i poveri: nella nuda ambientazione del finale, uno spazio desolato e vuoto che pare un retropalco di teatro, Violetta muore giacendo sul nudo pavimento, mentre tre imbianchini si mettono indifferenti al lavoro sulle pareti scrostate.

Vari direttori si sono avvicendati dopo il varo con Lorin Maazel: è ora venuto il turno di Diego Matheuz, direttore principale della Fenice dal 2010, che la riprende in questo scorcio d’anno dopo averla peraltro concertata nella sala veneziana già nel settembre 2012. Quella che l’artista venezuelano innalza è una visione solida e ben innervata - ma per fortuna mai concitata – della partitura verdiana, che non intende indugiare a facili sentimentalismi; eppure guida l’ottima orchestra della Fenice - pronta a rispondere con precisione, ed un suono nitido e morbido - ottenendo bell’abbandono emotivo nei Preludi, molta eleganza e bel dispiego di colori nelle due scene mondane. Impeccabile poi nel realizzare accompagnamenti vibranti e pieni di calore, che sostengono e si fondono a meraviglia con il lavoro dei cantanti.

Grande, grandissima protagonista di queste recite è la giovane soprano Francesca Dotto, che ha debuttato nel ruolo giusto un anno fa a Sassari, l’ha ripreso in primavera al Petruzzelli di Bari, e poi a fine estate proprio qui alla Fenice. Che dire? Un anno intero vissuto da Violetta, senza mai cadere nella routine, in totale simbiosi con un personaggio così completo e sfaccettato. Anche in queste ultime recite ha convinto tutti: perché unisce a convincenti doti attoriali un grande temperamento e squisita musicalità, e sa come mettere in campo un canto cristallino, ricco di sfumature e chiaroscuri, con una correttezza di fraseggio esemplare. E profonde bellezza e varietà di timbri nei momenti di inebriante follia, scoprendo una dolcezza lancinante, un dolore intimo e sublimato in momenti come Così alla misera o in Addio del passato.
Buone intenzioni interpretative, e non trascurabili qualità di base – smagliature nel tessuto vocale, ben sostenuto nel suono, non se ne sentono - emergono dall’Alfredo di Leonardo Cortellazzi; ma un canto ancora un po’ superficiale e quasi scolastico, privo della necessaria eloquenza e profondità, sminuisce in parte il suo personaggio. Marco Caria tratteggia un Germont padre convincente, in scena e nell’autorevolezza vocale, muovendosi con buon senso del colore, apprezzabile varietà di accenti, imprimendo all’insinuante riflessione di Un dì quando le Veneri, o all’appassionata filippica Di Provenza il mare il suol una più che lodevole espressività. Ottima la Flora di Elisabetta Martorana, ben organizzata la schiera dei comprimari: l’Annina di Sabrina Vianello, il Gastone di Massimiliano Chiarolla, il Douphol di Armando Gabba, il Grenvil di Francesco Milanese, il D’Obigny di Matteo Ferrara.

Visto il
al La Fenice di Venezia (VE)