Lirica
LA TRAVIATA

Il colore dei soldi

Il colore dei soldi

La Traviata del 2004 di Robert Carsen, produzione più volte riproposta con successo dalla Fenice come si conviene a un classico, è un esempio riuscito di “Musiktheater”, dove musica e teatro instaurano reciproci legami in modo creativo ed equilibrato senza stravolgere la drammaturgia verdiana, ma mettendone in rilievo con pochi ma geniali tratti il suo valore universale e la capacità di comunicare al pubblico contemporaneo.


Del capolavoro verdiano il regista canadese propone una lettura cinica e lucida, ma ricca di humanitas e mai volgare, nonostante venga messo in evidenza come Traviata sia fondamentalmente la storia di una prostituta, artefice e al tempo stesso vittima di un sistema basato sulla mercificazione e sul denaro. Carsen attualizza la vicenda (come del resto era nelle intenzioni di Verdi, che ne auspicava un’ambientazione contemporanea per consentire al pubblico una fruizione immediata di una tematica forte dell’epoca) e la colloca in un passato recente, non troppo definito ma comunque a noi familiare, dove ravvisiamo nei comportamenti, nelle scene eleganti e negli abiti fashion di Patrick Kimnonth un edonismo superficiale anni ’80 con sprazzi di lusso vagamente dèco.

Il flusso di denaro, ma anche il verde che simboleggia il colore dei soldi, sono motivi ricorrenti: tappezzerie e velluti verdi immagini di un lusso equivoco, luci verdastre (curatissimo e sempre portatore di senso il light design di Robert Carsen e Peter Van Praet) che mettono in rilievo la vanità di un piacere fasullo, banconote che cadono dall’alto e si accartocciano a terra come foglie morte a suggellare l’impossibilità di un puro amore, un bosco dell’illusione bucolica che non è altro che l’ingrandimento di una foto digitale che adorna una camera a ore.

Il marcato passaggio di denaro, che ci introduce fin dalle prime battute “in media res” quando vediamo Violetta in deshabillé che afferra con freddezza e avidità il danaro degli uomini che si avvicendano nella suite-bordello, dà una forte connotazione anche ai momenti “patetici“, come quando Germont paga Violetta per chiudere la questione (apparendo così nella sua reale grettezza e la nobiltà del canto lo rende ancora più ipocrita) o quando il Dottore, solitamente pietoso, esige con insistenza il compenso per l’ultima visita.


Il mondo di Violetta è superficiale e fatuo, marcato dal valore dell’immagine e del denaro (come del resto il nostro vivere quotidiano) e anche Alfredo sembra attratto soprattutto dall’apparenza di Violetta, donna da fotografare e collezionare attraverso un obiettivo. In questa fiera delle vanità le zingarelle sono entraineuses dorate come monete e i matadores California Dream Men che allietano mantenute e gigolò, un entourage da night club in cui vive Violetta e che per certi versi ha scelto, come quando alla fine di “Sempre libera” preferisce l’amplesso triviale di Douphol alla frase d’amore fuori campo di Alfredo.

Alla fine, con il decadimento fisico ed economico della protagonista, il mondo di apparenza si disgrega e la suite 1206 diviene l’emblema dell’abbandono: un televisore che manda il segnale di fine trasmissioni, cellophane per terra e ponteggi di lavori in corso e la foto del bosco ridotta a brandelli contro cui si stringono Violetta ed Alfredo per intonare “Parigi o cara” in un disperato quanto illusorio anelito di felicità. Di segno forte le controscene che accompagnano il finale: gli “amici” che irrompono nella stanza della morente con stridente allegria, gli operai indifferenti impegnati nella ristrutturazione di una suite da riaffittare in fretta e Annina che non aspetta altro che impadronirsi della pelliccia della padrona (la morte di Violetta non merita nessuna attenzione e pietà: per tutti è già morta da un pezzo).


La lettura di Myung-Whung Chung, sensibile e per certi versi non convenzionale, è in sintonia con la regia e nel continuo variare di dinamiche e spessori, alternando momenti di dilatato indugio a forte scatto drammatico, conferisce umana verità al dramma. La direzione accurata lascia trasparire in filigrana delicate sfumature orchestrali, conseguendo un perfetto equilibrio fra i singoli strumenti (particolarmente nitidi e precisi) e un impasto sonoro vigoroso e flessibile che a tratti si annulla, quasi con una forma di pudore, dietro le esigenze delle voci e del testo. Eccellente la prova dell’orchestra della Fenice, buona l’esecuzione del Coro preparato da Claudio Marino Moretti.


La Violetta della giovane russa Ekaterina Sadovnikova ha l’allure da escort e un volto da rivista patinata e conquista progressivamente il pubblico con un’esecuzione in crescendo. La voce lirica e leggera non è particolarmente estesa, ma ben intonata e funziona in una produzione che non punta meramente su forti spessori sonori.

Nel ruolo di Alfredo convince pienamente Stefano Secco, che dimostra anche in questa occasione come con l’intelligenza interpretativa e l’attenzione al testo si renda intenso un ruolo e si apprezzano le capacità di sostenere i piano, trovando colori e mezzevoci.

Un plauso al Germont di Giovani Meoni, che incanta per una voce corposa dalla linea vocale sfumata e un fraseggio perfettamente calibrato che mette in risalto tutta la retorica del personaggio.

Rebeka Lokar è una Flora appariscente e frivola, sopra le righe comme il faut. Bene Iorio Zennaro nel ruolo di Gastone, disinvolta e puntuale l’Annina di Sabrina Vianello. Fra gli altri comprimari si distinguono Elia Fabbian un Douphol particolarmente materiale, Armando Gabba il Marchese D’Obigny e Luca Dall’Amico il Dottor Grenvil.


Lo spettacolo corre veloce e coinvolge un pubblico sempre più partecipe che scoppia alla fine in un grandissimo applauso.

Visto il
al CRAL ENI di Livorno (LI)