Non c'erano né la regia, né le scene, né i costumi originariamente previsti per questa Traviata verdiana. L'evento apicale di CortinAteatro 2020 ha dovuto farne a meno, per colpa ovviamente dell'uragano Covid-19 che ha costretto ad una dolorosa rinuncia. Non solo: l'orchestra – la brava Filarmonia Veneta – suonava a ranghi un po' ridotti, il Coro Lirico Veneto preparato da Flavia Bernardi era ai minimi sindacali, vale a dire una quindicina di voci.
Colpa del dover collocare tutti – musicisti e coristi – sul palcoscenico dell'Alexander Girardi Hall: capiente sì, ma non al punto da poter ospitare un centinaio di persone a distanza di sicurezza. Tanto che per l'esilità delle risorse corali s'è preferito sacrificare, tagliandola di netto, la mascherata di zingarelle e matadores nel salotto di Flora.
La musica in primo piano, senza distrazioni
C'è da dire che l'esecuzione concertistica di un capolavoro ben conosciuto - a maggior ragione d'una Traviata che detiene il primato delle presenze in teatro – permette maggior concentrazione sul versante musicale, mettendo da parte una tantum il lato visivo, in qualche misura fonte di distrazione. Talvolta pure di insoddisfazione, se quello che la regia ci propone delude le nostre attese. O magari pure di irritazione, se urta la nostra sensibilità.
Dunque partiamo dalla protagonista, cioè dalla splendida Violetta di Francesca Dotto, che di questa impegnativa figura ha fatto trampolino della propria fulminante carriera, interpretandolo nei maggiori teatri. Il soprano trevigiano si fa apprezzare anche in questa circostanza, compensando il vuoto scenico con l'espressività gestuale, con l'intensità di sguardi, con l'intensa partecipazione emotiva. Oltre che, naturalmente, col porre in campo tutte le sue grandi virtù vocali: freschezza e grande eleganza nella linea di canto, acuti di estrema limpidezza, bellezza ed omogeneità di timbro, massima varietà di tinte.
Il giovane tenore canario Gillen Munguía dà corpo ad un Alfredo virile e volitivo, dall'accento eloquente, sorretto da una vocalità luminosa, elegante e ben controllata. Cosa non scontata, fa buon uso sapiente della tecnica: fraseggi e legati, piani e pianissimi, gli occasionali rubati, i piccoli abbellimenti sono risolti con buona maestria.
Da parte sua Alessandro Luongo tratteggia la figura di Germont padre con notevole finezza interpretativa, incisività, ottimo senso del colore, generosità di fiato. Adeguate le parti di contorno: Alessandra Pacheco (Flora), Arianna Cimolin (Annina), Marco Gaspari (Gastone), Francesco Toso (Douphol), Giovanni Bertoldi (d'Obigny), Francesco Milanese (Grenvil).
Una concertazione prudente e sorvegliata
Primissimo cimento teatrale per Gerardo Felisatti, trentenne direttore rodigino fresco di diploma. Ma prima ancora ottimo pianista e, ci dicono, pure valido vocal coach. Bene: in una giovane bacchetta ai primi agli esordi è lecito aspettarsi una certa propensione al fuoco, all'accentuazione, all'intemperanza. Invece questa sua concertazione di Traviata è tutto il contrario: procede con scelte prudenti, con un incedere musicale sorvegliato, sembrerebbe persino timoroso di farsi sentire.
Si avverte insomma non tanto la mancanza di esperienza, quanto quella di coraggio, di audacia, di slancio emotivo: non tanto nella tecnica direttoriale, che mi pare ben appresa dal suo maestro Giancarlo Andretta, quanto nella mancanza di una proposta drammaturgica personale. Risultato: passione e coinvolgimento emotivo tenuti a freno; articolazione di ritmi e di frasi, gioco dinamico, varietà di colori, tutti da rimeditare e da sviluppare al punto giusto. Più animo, ci vuole, e più ardimento. Ci risentiremo più avanti.