Lirica
LA TRAVIATA

Parma, teatro Regio, “La trav…

Parma, teatro Regio, “La trav…
Parma, teatro Regio, “La traviata” di Giuseppe Verdi UNA RONDINE NELLA GABBIA In questi giorni Parma è trasformata, nel volto, nelle suggestioni. Il miracolo operato dal festival Verdi. Una sfida. Vinta pienamente. Un impegno produttivo colossale, senza precedenti. Un risultato eccellente. Che pone Parma (e con essa l'Italia tutta) al vertice della cultura mondiale. Ventotto giorni di festival, perchè ventisette sono le opere di Verdi (compreso il Requiem), più un giorno per la festa del compleanno, 194 anni il 10 ottobre. Un mese serrato, strutturato con una forte passione musicale e culturale, sui colori saturi dell'autunno, poiché Verdi è un compositore autunnale, come dice il sovrintendente Mauro Meli. Un ottobre compatto, ben ventisette recite di opera tra Parma, Busseto, Modena e Reggio Emilia. E poi concerti e tanto altro. Ogni giorno è dedicato a un'opera scritta dal Maestro, ogni giorno si racconta un'opera e se ne suonano arie, evocandone le immagini: al castello di Torrechiara, al teatro di Busseto, alla Casa della Musica, in Auditorium Paganini, anche al Regio, ovviamente. E altrove. Ovunque si sente risuonare la musica di Verdi, ovunque si parla di Verdi. Infinito è l'elenco degli eventi collaterali, da “Verdi tra noi” (una frase che contiene il senso di questo straordinario festival) ai concerti delle grandi bande militari che si misurano con le pagine verdiane, da “Imparolopera” per i giovanissimi a “A tavola con Verdi” per i buongustai, da “Traiettorie” per i più curiosi di suggestioni sonore contemporanee ai libri e alle mostre: sul centenario verdiano alla Casa della Musica, con le foto di Otello nei portici del Comune, “Parma da Verdi a Vittorio Veneto” a Palazzo Pigorini, ma anche “Arte contemporanea e gastronomia” in varie sedi e “Burri” alla Magnani Rocca. Una città e un territorio trasformati. Nel segno e nel nome di Verdi. I coniugi Herrmann, Karl-Ernst e Ursel, debuttano in Italia con questa eccezionale produzione del 1987 della Monnaie. Le scenografie (di Karl-Ernst) ricostruiscono l'atmosfera del tempo in perfetta adesione alle didascalie; la regia, meticolosissima, entra sottilmente ma profondamente, come una lama, nella psicologia dei personaggi e con fine introspezione ne svela lati mai esaminati: così si ritrova nella scenografia, l'evidenza di quella ricerca. Lo sguardo è profondo e scrutatore, da risultare quasi crudele, come attraverso una lente deformante, come guardare un dipinto tra l'espressionismo tedesco e il nuovo oggettivismo, tra Otto Dix e George Grosz, ma soprattutto Ernst Ludwig Kirchner: l'opulenza feroce e oppressiva degli interni che quasi non concedono respiro; il lusso ostentato e volgare delle stanze della casa di Violetta, il teatrino - scatola asfittica nella casa di Flora, le figure aggressive, i tratti deformati, le parrucche asimmetriche degli uomini. Ma cominciamo dall'inizio. All'apertura del sipario Violetta tossisce, rivelando la presenza della malattia. Violetta è una puttana. E da tale si comporta: durante il brindisi sale sul tavolo e si spoglia di alcuni indumenti, sale a cavalcioni sopra Alfredo, ammicca, solletica, stuzzica, provoca, anche solo rovesciando cappelli dalle teste degli invitati. Nel cantare “E' strano!” spalanca la grande finestra, ha bisogno di aria, di far uscire il tanfo asfittico che gli ospiti hanno lasciato, quegli ospiti per i quali lei è solo “carne”, avidi avvoltoi affamati. Automi. Corpi senza anima, che ridono forte, in modo grottesco, slabbrato, deformato. E così trova rifugio accucciandosi per terra, tra le pieghe di un paravento, tra le pieghe dell'anima. Dopo che tutti se ne sono andati, tirandosi dietro tovaglia e piatti da quel tavolo rotondo che è il centro intorno cui tutti girano e il palco delle esibizioni sguaiate di Violetta. Se il primo atto è dominato dalla fine dell'estate, il secondo è in pieno inverno: una distesa di neve, un'amaca pende solitaria tra i gelsi spogli. Questo atto è la chiave dell'intera opera, con quella distesa amplissima innevata, i gelsi che protendono verso l'alto i rami scarni, la grande vetrata e Violetta che sbatte contro il vetro come una rondine in cerca di libertà. Quelle stesse rondini dipinte sul soffitto del primo atto; quelle stesse rondini ricamate sulla gonna di Violetta nel primo atto, una gonna che si apriva a svelare le gambe nude e i reggicalze. Violetta incontra Germont e minaccia che morirà, se dovrà lasciare Alfredo: spalanca la porta verso il giardino innevato, accasciandosi a terra. Una Violetta che rivela un nuovo rapporto con Germont, tra reazioni impulsive di rabbia e abbandoni tenerissimi. L'atmosfera è russa (non solo musicalmente), Anna Karenina e quella stazione innevata, il giardino dei ciliegi e quegli alberi scheletrici; un personaggio cechoviano è questa Violetta, con il suo obbligo a rinunciare alla felicità. Tanto che, quando Germont se ne va, si spiaccica contro il vetro, a mani aperte, come un uccello che anela ampi spazi sereni. O la sola possibilità, vitale, di volarsene via. Ma Violetta non può volare via. Deve affrontare Alfredo. E tutto il resto. Si muove, sempre, ossessivamente. Avanti e indietro. In tondo. Prima intorno al tavolo, ora freneticamente, febbrilmente, di qua, di là. Finendo (inconsapevolmente? Non lo so, di certo incolpevolmente) in quell'ambiente circense e asfittico che è la casa di Flora, quasi l'interno di una scatola foderata di stoffa, un luogo tra un bordello e la proiezione di un incubo, con Gastone metà uomo e metà donna. E i presenti, che avevano sempre approfittato di Violetta, ora si voltano sdegnati davanti a Alfredo e alla sua somma offesa, loro stessi che, seppure in modo diverso, avevano approfittato e offeso anche loro Violetta, con la loro cupidigia, con il loro egoismo, con la loro vuota vanità esteriore. Nell'atto terzo la figura del dottore vestito da Pierrot rivela, oltre il travestimento carnevalesco, la solitudine dell'uomo vicino alla morte. E, in modo lucidissimo, nel cantare “Parigi, o cara”, Violetta ed Alfredo si danno le spalle, seduti sul letto: geniale. Il lampadario è a lutto, coperto di tulle nero come la specchiera; la luce naturalistica che entra dalla grande finestra rende la stoffa delle pareti imbottite violacea; l'abito bianco smerlettato del secondo atto è appeso davanti all'armadio, come un fantasma del passato, poi Annina lo piega e se lo stringe in grembo come un feto. Di nuovo Violetta spalanca una finestra, stavolta entra uno sbuffo di coriandoli e due palloncini, che si vanno a schiacciare contro il soffitto. Alfredo è un ragazzotto mai cresciuto, che non ha mai davvero toccato, stretto a sé Violetta, se non troppo tardi: resosi conto che Violetta non c'è più, le tocca il visto con la mano, poi si precipita tra le braccia del padre. Svetla Vassileva corre, salta, striscia, si sdraia; è perfetta per il ruolo registico, una Violetta seducente e dalla tumultuosa anima, disperata e necessariamente volgare; una Violetta più drammatica che leggera, più scura che agile, meno squillante; affronta il ruolo con totale immedesimazione attoriale e fa vibrare tutte le corde dell'anima; accompagna il canto, riverberando ogni sfumatura delle sillabe, generosa, emozionata, capace di grandi slanci ed in adesione totale con la lettura musicale di Temirkanov, un risultato attualissimo per la lancinante verità dell'interpretazione. Anche Massimo Giordano è perfetto nell'Alfredo pensato dagli Herrmann, giovanile ed impetuoso, quasi infantile, veemente, che si arrabbia subito e subito si pente; un Alfredo troppo fragile, impacciato nei gesti dell'amore fisico; il tenore si impegna vocalmente, anche se a volte, soprattutto nel secondo atto, il risultato non è pienamente soddisfacente. Intenso, ampio e luminoso il canto del Germont di Vladimir Stoyanov, una figura contegnosa dalla voce piena e morbidissima, un'interpretazione da manuale. Adeguati i comprimari, tutti: Daniela Pini (Flora), Antonella Trevisan (Annina), Gianluca Floris (Gastone), Armando Gabba (Barone), Filippo Polinelli (Marchese), Roberto Tagliavini (dottore), Iorio Zennaro (Giuseppe), Roberto Scandura (domestico di Flora), Matteo Mazzoli (commissario). La direzione orchestrale ha del miracoloso. Yuri Temirkanov, attualmente il più intenso interprete della letteratura musicale russa, debutta nell'opera lirica con il titolo che ama maggiormente e fornisce un'interpretazione memorabile. Anche lui, come gli Herrmann, ricostruisce la sontuosità dell'Ottocento ma con uno sguardo profondamente e lucidamente attuale. A cominciare dal preludio, un'esecuzione sognante, ultraterrena. Poi è un oceano di note, da picchi di drammaticità esplosiva a valli di lamentosità tormentata, una pressione emotiva sugli spettatori quasi insostenibile. La sua lettura musicale è sensazionale: Traviata è un'opera che ho ascoltato innumerevoli volte, ma questa sembra avere spazzato via tutti le precedenti, anche illustri. La musica fluisce naturale, dalle pagine tragiche e commoventi a quelli solenni e festaiole, senza mai un accenno di retorica, una cosa difficile da raccontare a parole, un risultato strumentale da brivido. L'orchestra è incantata dalla bacchetta “magica” del direttore e risponde nel migliore dei modi possibili, in piena sintonia (come anche il coro): di più non si poteva fare. Il coro è preparato ottimamente da Martino Faggiani e, con rara professionalità, affronta in modo eccellente il pressante programma festivaliero. Alla fine un uragano di applausi per una Traviata imperdibile, dall'altissima tensione emotiva, una Traviata che tutti dovrebbero vedere e ascoltare. Emozionandosi come poche altre volte nella vita. Visto a Parma, teatro Regio, il 6 ottobre 2007 FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al Regio di Parma (PR)